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La repressione cinese delle proteste a Hong Kong (2019-2020), l’aggressione russa dell’Ucraina (2022), le imponenti esercitazioni militari ordinate da Pechino nelle Stretto di Taiwan (2022) e, da ultimo, l’attacco di Hamas contro Israele (2023) costituiscono solamente degli indicatori-shock della crisi che sta attraversando l’ordine internazionale del post-Guerra fredda.

Se solo in tempi recenti l’opinione pubblica mondiale ne ha preso piena coscienza, tale fenomeno è oggetto di un animato dibattito all’interno della comunità di studiosi e professionisti delle Relazioni internazionali almeno dai tempi della crisi finanziaria del 2007-2009. Negli ultimi quindici anni, pertanto, Washington ha ripensato la sua grand strategy in funzione di questa sfida, rifondandola su tre pilastri condivisi trasversalmente dalle Amministrazioni Obama, Trump e Biden.

Il processo di identificazione di un equivalente funzionale al containment della Guerra fredda e al democratic enlargement degli anni ’90 e ’00, ossia di un concetto intorno al quale far ruotare l’intera strategia americana, ha portato alla formulazione del primo pilastro, quello del Pivot to Asia. Sebbene i cambiamenti da esso implicati fossero già stati abbozzati da George W. Bush, è negli anni di Obama che tale concetto è stato trasposto nelle forme di un complessivo ribilanciamento di risorse nell’area allora definita Asia-Pacifico. Con le Amministrazioni Trump e Biden tale scelta è giunta a completa maturazione. Negli ultimi otto anni si è parlato apertamente, infatti, della sfida revisionista cinese e la regione che ne costituisce il perimetro preferenziale è stata ribattezzata con l’etichetta di “Indo-Pacifico”, in modo da includere anche l’India in questa complessa partita. È così che nel 2022 la Casa Bianca è arrivata a formulare la sua prima Indo-Pacific strategy dove, pochi giorni l’attacco russo all’Ucraina, sia affermava che il principale obiettivo internazionale degli Stati Uniti fosse «plasmare l’ambiente strategico in cui la Repubblica Popolare Cinese opera» per costruire «un equilibrio di influenza» favorevole «agli Stati Uniti, ai [loro] alleati e partner».

Funzionale a un effettivo ribilanciamento nell’Indo-Pacifico è risultato il secondo pilastro del nuovo approccio strategico americano, ossia il taglio – progressivo – degli impegni non vitali. Questa seconda scelta trova la sua giustificazione nell’ammissione per cui anche una superpotenza come gli Stati Uniti deve fare i conti con la quantità finita delle risorse a sua disposizione e non può permettersi di sperperarle. Il ritiro dall’Afghanistan ha rappresentato solo la più eclatante traduzione di tale scelta. In quell’occasione, infatti, è diventato evidente come Washington considerasse razionale l’assunzione degli elevati costi reputazionali derivanti dal sacrificio di impegni precedentemente assunti nel Mediterraneo, in Medio Oriente e nello Spazio post-sovietico. Già le National Security Strategy del 2010 e 2017, d’altronde, avevano definito gli interessi americani in queste are «importanti» e non più «strategici» come in passato, testimoniando la traiettoria di disimpegno che ha conosciuto un parziale aggiustamento solo dopo gli eventi del 24 febbraio 2022 e del 7 ottobre 2023.

Il terzo pilastro, infine, è la richiesta ai Paesi alleati, in particolare ai membri della Nato, di “condividere il fardello” della preservazione dello status quo internazionale, poiché questo non garantisce non solo i valori, la sicurezza e gli interessi americani ma anche i loro. Tale rivendicazione è stata declinata principalmente in due modi. Da un lato, Washington ha invitato gli alleati a spendere maggiormente in difesa – soluzione formalmente accettata con il Defence Investment Pledge del summit in Galles dell’Alleanza Atlantica. Dall’altro, ha chiesto loro di rendersi disponibili a operare sempre più out of area sia come alleanza – una richiesta naufragata nella sua versione della global Nato, ma che è stata tacitamente accettata in quella della Nato with global connections – che singolarmente di raccordo con le forze americane. Le richieste degli Stati Uniti sono state accolte almeno sul piano dottrinale, anche se non senza contraddizioni nelle politiche implementate né qualche ambiguità di fondo, dalle principali medie potenze europee come Regno Unito, Francia e Germania.

Anche l’Italia, pertanto, è chiamata a compiere alcune scelte cruciali per gli anni avvenire, da cui dipenderà il suo status nel futuro ordine internazionale. Pur non avendo ancora adottato un suo documento per la sicurezza nazionale, di fronte alla radicalizzazione della competizione internazionale ha avviato un graduale riadattamento che nella sostanza sembra persino sopravanzare le posizioni effettivamente tenute da molti alleati europei. Se ha confermato e ampliato i suoi impegni sul Fianco est, sostenuto lo sforzo bellico dell’Ucraina e ridotto drasticamente le importazioni di gas russo nel giro di due anni, anche se con modalità più prudenti ha comunque ricalibrato – sia direttamente che indirettamente – il suo atteggiamento nei confronti della Repubblica Popolare Cinese. Sia qui sufficiente ricordare l’adesione al Global Combat Air Programme, la campagna Indo-Pacifico della nave Francesco Morosini, l’elevazione dei rapporti bilaterali con Tokyo a Partenariato strategico, il mancato rinnovo del Memorandum of Understanding con Pechino, l’invio di una squadra navale con a capo la portaerei Cavour nell’Indo-Pacifico nel secondo semestre del 2024 e, da ultimo, la partecipazione della Marina Militare all’esercitazione Rimpac organizzata dalla US Navy.

La richiesta di burden sharing da parte americana e la riconferma della vocazione atlantista dell’Italia, tuttavia, pone il nostro Paese di fronte a un dilemma. Procedere verso un’ulteriore proiezione fuori dal Mediterraneo allargato, o circoscrivere il suo ruolo a politiche di contenimento delle potenze revisioniste – di concerto con gli Stati Uniti, ma senza assumere mai posizioni radicali – a un raggio d’azione più coerente con la sua condizione di media potenza?

Gli autori hanno più diffusamente trattato i temi del presente articolo nel Geopolitical Brief n. 1 “La politica estera italiana tra baricentro euro-mediterraneo e ambizioni indo-pacifiche”, pubblicato nell’ambito del progetto ITAsia realizzato da Unint – Università degli Studi Internazionali di Roma, in collaborazione con il Centro Studi Geopolitica.info e Cemas Sapienza Università di Roma, con il sostegno dell’Unità Analisi, Programmazione, Statistica e Documentazione Storica del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

 

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