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L’accordo sulla Libia raggiunto ieri tra i due parlamenti rivali, senza l’Onu, rappresenta un passo in avanti o un modo per guadagnare altro tempo in una fase di stallo? Sul tema gli analisti sono divisi, ma concordi nel definire ancora molto incerto il destino politico dell’ex regno di Muammar Gheddafi.

COSA È SUCCESSO

L’intesa trovata a Tunisi dovrà adesso essere approvata dalle rispettive assemblee per poter dare inizio a una nuova fase politica del Paese. A firmarla sono stati Awad Abdelsadek, vice presidente del Congresso Generale Nazionale (il Parlamento di Tripoli, nato dalle ceneri della vecchia assise), e il parlamentare Ibrahim Amish, rappresentante del Congresso dei Deputati (il Parlamento di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale). Grandi assenti le Nazioni Unite e il loro inviato speciale Martin Kobler, da poco subentrato allo spagnolo Bernardino León. Proprio nelle ore precedenti il diplomatico tedesco aveva iniziato un nuovo round di incontri per cercare di avvicinare le parti.

IL SIGNIFICATO DELL’ACCORDO

Come interpretare l’accordo? Per Cinzia Bianco, analista esperta di Medio Oriente e Mediterraneo per la Nato Defense College Foundation, sono ancora molte le incognite. “Anche se l’intesa prevede tempi certi, ad esempio circa dieci giorni per la scelta dei nuovi vertici del possibile esecutivo, i due firmatari”, spiega a Formiche.net, “non sembrano godere di legittimità o autorità particolari, soprattutto nei confronti delle milizie armate. Da un lato sembra l’ennesimo segno di una grande immaturità politica dei libici, che, apparentemente, non hanno idea chiara sul funzionamento dei processi istituzionali interni e internazionali; il vero accordo sarà raggiunto solo quando sarà trovata non solo un’intesa interna, ammesso che ci sia, ma anche tra le potenze esterne che finanziano e sostengono le milizie”. In Libia, le due macro-fazioni che si contendono il Paese sono sostenute da un lato da Turchia e Qatar e dall’altro da Egitto ed Emirati Arabi Uniti. I primi sostengono il vecchio parlamento, il Gnc; i secondi Tobruk. “Dall’altro”, aggiunge l’esperta, ” ciò può essere letto come un modo di prendere tempo sia per non rompere interessi particolari che si sono cementati in entrambe le parti, sia per prendere le misure al nuovo inviato Onu”.

IL RUOLO DELL’ONU

Dopo la fine turbolenta dell’esperienza di Leon, accusato di aver favorito per interessi personali una delle parti coinvolte nel complesso scenario libico – Tobruk attraverso la sponda emiratina – ora per l’Onu, nel Paese, si apre una fase nuova. “Dopo lo scandalo del diplomatico spagnolo si riparte da una sorta di tabula rasa. Non è chiaro, ad esempio, quale sarà la posizione ricoperta dal generale Khalifa Haftar, vicino ad Abdel Fattah Al Sisi. La sua rimozione è stata finora indicata come una conditio sine qua non per la formazione di un governo unitario, ma la sua figura pare al momento un po’ defilata. Le fazioni s’interrogano sicuramente su quale potrà essere l’apporto di Kobler, un inviato che ancora conoscono poco, che non ha ancora la legittimità necessaria e che forse non ha ancora avuto modo di manifestare del tutto la propria strategia. L’intesa di ieri, in questo senso, può anche essere un messaggio alle Nazioni Unite”.

IL FATTORE ISIS

Una delle poche certezze della Babele libica è il rafforzamento dello Stato Islamico, che guadagna posizioni e potrebbe aver scelto proprio il Paese nordafricano come base per il Califfato, se le cose in Siria e Iraq dovessero andare per il verso sbagliato. “La possibile sirianizzazione del Paese è un pericolo concreto, ben chiaro sia internamente, sia esternamente. Tuttavia – rileva Cinzia Bianco – l’Isis sta svolgendo in Libia una doppia funzione. Senza dubbio un rafforzamento dei drappi neri è un pungolo per raggiungere un accordo soprattutto per la parte occidentale, dove è presente il Gnc. Però può anche essere per le fazioni una comoda scusa, tesa a alimentare una retorica del terrore finalizzata a tenere sotto controllo la popolazione impaurita e a chiedere maggiori risorse alle potenze esterne”.

LA LINEA ITALIANA

Tra i Paesi più interessati alla crisi libica c’è l’Italia, che il prossimo 13 dicembre ospiterà alla Farnesina una conferenza internazionale sulla Libia, speculare a quella austriaca sui destini di Damasco. Un appuntamento fortemente voluto dagli Usa, durante il quale, alla presenza del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, si proveranno a gettare le basi di un governo di unità nazionale con sede a Tripoli. “Roma”, rimarca l’analista, “punta molto su Kobler e sta seguendo una linea prudente ma protagonista, che alla lunga potrebbe pagare. In un’intervista pubblicata ieri sul Corriere della Sera, il premier Matteo Renzi ha rilanciato la voglia dell’Italia di essere il mediatrice di un accordo in Libia”. Certo, evidenzia, “c’è il rischio che l’Occidente sia persuaso dal voler chiudere un accordo a tutti i costi, senza tener conto che, come dimostrano gli ultimi fatti, da quando León è uscito di scena si sono sviluppati percorsi negoziali paralleli, non si comprende bene incentivati da chi. Sarebbe interessante capire perché l’intesa sia stata firmata a Tunisi e non altrove. Ma Palazzo Chigi ha rimarcato che se la situazione siriana si risolverà a Vienna, quella libica troverà una sintesi a Roma. Si è trattato di un modo non solo per rivendicare la nostra indispensabilità nel dossier, ma anche per chiarire che non ci sarà una soluzione al caos nel Paese nordafricano finché non sarà trovato un accordo globale tra tutti gli attori in campo. Non solo le fazioni, dunque, ma anche le potenze del Golfo, Egitto, Turchia e l’Occidente”.

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