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La telefonata della presidente del Consiglio Giorgia Meloni al presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, è inusuale. Roma comunica poco con Teheran, almeno a livello così pubblico e istituzionale; tanto meno in una situazione di crisi aperta in cui si attende da giorni che l’Iran sferri una rappresaglia contro Israele — colpevole in generale, secondo gli iraniani, di aver alzato ulteriormente il livello dello scontro con la Repubblica islamica nell’ambito della guerra post 10/7 e nello specifico responsabile dell’affronto dell’eliminazione di Ismael Haniyeh, leader di Hamas.

Meloni ha chiesto a Pezeshkian di evitare l’escalation, che è oggettivamente dietro l’angolo, e che dipenderà proprio dalla profondità di quella rappresaglia iraniana, perché più sarà profonda e più danno produrrà, più sarà inevitabile per Benjamin Netanyahu contro-reagire duramente. Da lì in poi si aprirebbe una spirale incontrollabile che potrebbe portare verso un conflitto aperto tra Iran e Israele. Una situazione che tutti vogliono evitare, e forse è su questa consapevolezza che Teheran sta un po’ frenando la reazione — anche perché è chiaro che davanti a un conflitto gli Stati Uniti sarebbero costretti a proteggere lo stato ebraico, e tutto sommato anche l’Europa lo farebbe.

Dunque mentre il senso imminente della telefonata di Meloni è evidente — l’Italia è un importante Paese dell’Indo Mediterraneo e deve per ruolo essere parte di certe dinamiche — ne emerge uno immanente. Comunicare con l’Iran è una realtà coessenziale se si intende mantenere stabile (per quanto possibile) la regione che caratterizza la proiezione geostrategica primaria dell’Italia e dell’Unione europea. Tanto che prima della premier italiana era stato il presidente francese, Emmanuel Macron, a chiamare Pezeshkian. L’iraniano appartiene al blocco dei riformatori, politicamente contrario ai conservatori dalla linea dura, ma non per questo non fedele alle visioni teocratiche.

È nella teocrazia che sono addentellate le posizioni reazionarie e più guerresche, quelle interpretate dalla seconda generazione post rivoluzione, che trovano nell’industria militare l’interesse esistenziale e ampi spazi tra la linea più dura del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione — il quale a sua volta mette a disposizione la piattaforma ideologica e le capacità sociali connettive per diffondere tali posizioni e abbindolare anche la terza generazione. Anche in Iran, il conservatorismo nazionalista sta scarrellando verso un oltranzismo sempre più radicale, in cui le attività dell’Asse della Resistenza (l’insieme di milizie connesse al Corpo e alla teocrazia che costituiscono lo scheletro dell’influenza malevola iraniana e che potrebbero integrarsi in una sorta di legione straniera) rientrano ormai in un più ampio schema totale in cui l’Iran gioca nel team dei revisionisti e contro le democrazie (insieme a Russia, Cina, Corea del Nord).

È in quest’ottica che il contatto diretto francese e italiano con il presidente Pezeshkian diventa non solo un passaggio necessario ma una necessità strategica — anche sponsorizzata da Washington — per cercare canali di comunicazione con cui gestire le distanze e le conflittualità. Anche pensando che una possibile nuova amministrazione Trump possa esacerbare ulteriormente la situazione con provvedimenti ancora più duri contro l’Iran — come già fatto in precedenza con l’uscita dell’accordo nucleare Jcpoa — e contribuire (come già fatto) all’irrigidimento delle posizioni all’interno della Repubblica islamica.

Nei giorni scorsi, Enrique Mora, direttore politico dello European External Actions Service, dopo un incontro con l’alto diplomatico iraniano Abbas Araghchi, a Teheran, ha parlato di “nuovo capitolo per l’Iran”, aggiungendo che sarebbe stato “buono recuperare i contatti”. Mora era presente all’inaugurazione di Pezeshkian: lo era anche Haniyeh, per questo l’’Iran considera la sua eliminazione un colpo durissimo, e infatti Aragchi ha scritto in un insoluto messaggio su X in inglese (il primo degli ultimi due anni) che Israele “pagherà un prezzo pesante”. Ma certi messaggi sono anche necessità posturale davanti alle divisioni interne e ai falchi della teocrazia.

Mora e Aragchi  si conoscono da anni perché hanno rappresentato le rispettive parti nei dialoghi sul Jcpoa, e per anni hanno cercato di lavorare per la mediazione. Non è possibile attualmente valutare l’impatto dei colloqui di Mora, delle telefonate di Macron e Meloni, e va considerato che di solito l’influenza europea sulle politiche iraniane è limitata. D’altronde, è stato il portavoce dell’Ue a dichiarare ai giornalisti nei giorni scorsi che “le nostre relazioni con l’Iran sono a un livello molto, molto basso”, elencando la “violazione dei diritti umani delle persone in Iran […] il sostegno iraniano all’aggressione illegale della Russia contro l’Ucraina […] le detenzioni arbitrarie di cittadini europee”.

Se, come dice il funzionario europeo “questi sono i messaggi che stiamo trasmettendo loro”, forse visto le ultime dinamiche qualcosa si sta muovendo. Oggi Israele ha fatto sapere di aver accettato la riapertura dei colloqui per il cessate il fuoco a Gaza – e la liberazione degli ostaggi catturati da Hamas nell’attacco che ha fatto da dichiarazione di guerra a ottobre – seguendo una proposta di Egitto e Qatar sponsorizzata dagli Stati Uniti. “Iran non attacca più? Avrebbe senso organizzare i colloqui se lo strike è imminente?” chiede riservatamente un informato osservatore di certe dinamiche.

Secondo Iran International, media basato a Londra e finanziato dalla corte saudita per mettere a nudo le incongruenze del regime iraniano, Pezeshkian avrebbe chiesto direttamente alla Guida suprema della teocrazia, l’ayatollah Ali Khamenei, di evitare la rappresaglia – chiaramente perché facendolo l’Iran passerebbe per quanto possibile da responsabile. È una partita complessa da giocare all’interno del sistema iraniano, perché va gestita l’ala intransigente sia a livello di politica e apparato che di opinione pubblica. C’è la tregua a Gaza, e Pezeshkian potrebbe rivenderla come effetto del suo autocontrollo – un aiuto ai fratelli palestinesi su cui l’Iran si è messo al servizio.

Per quanto però la causa palestinese possa essere un interesse reale a Teheran: più concreta la possibilità di aprire una nuova stagione non tanto di dialogo, ma quanto meno di comunicazione più ordinata, con attori come l’Ue. In questo, altre mosse laterali fungono da altri indizi: per esempio, Pezeshkian ha riabilitato Javad Zarif, il politico che da ministro degli Esteri per le amministrazioni di Hassan Rouhani ha costruito il Jcpoa e il rapporto con l’Europa. Ora vicepresidente per gli Affari strategici e consigliere di primissimo livello di Pezeshkian (anche per la formazione dell’amministrazione).

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