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Lunedì l’esercito iracheno ha lanciato migliaia di volantini sopra alla città di Ramadi, con scritto un messaggio: evacuate i civili, perché nelle prossime ore partirà una nostra offensiva.

L’IMPORTANZA DI RAMADI

Ramadi è il capoluogo dell’Anbar, la parte occidentale dell’Iraq che si allunga verso la Siria. L’Anbar è la più ampia regione irachena, è a quasi totale maggioranza sunnita, e si trova a 110 chilometri dalla capitale Baghdad. A maggio, lo Stato islamico, era riuscito a prendere il controllo completo della città, e in quell’occasione non si è certo potuto parlare di “effetto sorpresa”, come nel caso della cavalcata su Mosul di giugno 2014. La città è stata da subito in testa agli obiettivi dei baghdadisti: l’Anbar è la regione che ha fatto da culla ancestrale al gruppo che con razionalizzazione giornalistica viene definito al Qaeda in Iraq, ma che si faceva già nominare Isi ossia Stato islamico in Iraq. Era guidato dal magnetico Abu Musab al Zarkawi, e negli anni dell’occupazione americana era un’organizzazione parallela ad al Qaeda (ne sfruttava il brand, diciamo), che guidava l’insurrezione sunnita contro gli occupanti, ma aveva già un obiettivo chiaro: creare uno stato islamico partendo dall’Iraq. Nella zona Zarkawi è considerato una specie di eroe nazionale. Il Califfato che conosciamo oggi parte da lì, e infatti uccisi Zarkawi e il suo successore, il capo dell’organizzazione dell’Anbar è diventato Abu Bakr al Baghdadi, l’attuale Califfo (che è originario di Samarra, città al centro  del cosiddetto “Triangolo sunnita”, cioè l’area più densamente popolata dai sunniti iracheni, che va da ovest di Baghdad fino a Ramadi e su al nord verso Tikrit: la zona era quella di maggior sostegno all’ex presidente Saddam Hussein ed è stata il teatro di molte battaglie con gli occupanti americani durante la Guerra d’Iraq). Questi collegamenti sono necessari per comprendere come l’Isis sia una realtà molto più complessa di un gruppo terroristico qualunque, con legami radicati nelle società locali.

LA CONNESSIONE STRATEGICA

L’Anbar, oltre ad avere un valore simbolico, ha anche un’importanza strategica. Come detto collega l’Iraq alla Siria, sboccando in quella parte di territorio siriano che è ricco di risorse naturali (l’area di Deir Ezzor),  petrolio e gas, che sono controllate dal Califfato e che ne rappresentano il principale sostentamento economico. Molti analisti considerano la presenza di questa attività economica come uno dei principali valore di diversificazione tra l’Isis e qualsiasi altro gruppo terroristico finora conosciuto; un altro di questi valori, è il controllo amministrativo di territorio. Sulle tracce di confine che dividono l’Anbar dalla Siria, sono stati girati i video con cui il Califfato si è presentato al mondo come una realtà territoriale plurale di tutti i musulmani: in quei filmati i bulldozer del Califfo distruggevano le linee di Sikes e Picot, le divisioni segnate dal colonialismo occidentale, e dichiaravano quel territorio la terra dei credenti, senza confini.

L’OFFENSIVA

Le forze armate irachene, saranno sostenute nell’offensiva dalla Coalizione internazionale a guida americana, in Iraq infatti non operano attivamente i russi, anche se hanno a Baghdad un centro operativo di intelligence. Gli americani daranno il supporto aereo, secondo una prassi di successo vista in queste ultime settimane sulla zona del monte Sinjar, al nord iracheno. Gli Stati Uniti hanno fornito all’esercito di Baghdad anche degli scavatori blindati, perché temono che il territorio intorno alla città sia infestato da trappole esplosive: è una prassi ormai nota, in questa guerra asimmetrica che il Califfo combatte tra trincee e attentati. Quando gli ultimi militari iracheni si ritirarono dalla città a maggio, il premier iracheno Haider al Abadi annunciò: “Riprenderemo Ramadi a giorni”. Dopo un’iniziale disorganizzazione, l’offensiva è partita a luglio e lì si è fermata: da circa cinque mesi quasi dieci mila soldati iracheni (e milizia sciite filoiraniane che sostengono Baghdad) sono bloccate fuori città, in un assedio retto da 300-400 uomini del Califfato (il numero l’ha stimato il New York Times). La loro principale forza sono proprie le fortificazioni minate create intorno alla città, con cecchini che sparano colpi di mortaio e kamikaze su veicoli esplosivi mostruosamente corazzati che si lanciano a spezzare le linee nemiche. L’operazione su Ramadi, è considerata da molti esperti militari, un test in vista di un’offensiva molto più complessa: riprendersi Mosul, la capitale irachena dello Stato islamico, un’azione che doveva cominciare questa primavera, ma che per la complessità e l’impreparazione delle forze irachene è stata rimandata.

NUOVE FORZE SPECIALI

Il segretario alla Difesa americano Ashton Carter, ha annunciato martedì l’invio di altre unità di Special operations force in Iraq e Siria. Si tratterà di commando composti da poche unità, agili, leggeri, uomini scelti delle migliori unità d’élite (probabilmente Delta, o Seals, o Ranger), che avranno il compito di accompagnare i combattenti sul campo (milizie in Siria, Peshmerga, Ypg, esercito iracheno): guideranno i raid da terra illuminando i bersagli, saranno pronti per operare blitz su papaveri dell’Isis, o liberare eventuali ostaggi. Possibile che partecipino anche a scontri a fuoco, chiaramente, e il Nyt scrive attraverso le sue fonti che «saranno in grado di colpire lo Stato islamico»: pochi giorni fa, due reporter del Guardian hanno pubblicato un articolo in cui raccontavano di alcuni video, mostrategli dai peshmerga curdi in Iraq, in cui erano stati ripresi soldati americani impegnati in battaglia. Il teatro operativo spesso non rispetta le regole politiche, lo scontro è quasi inevitabile, al di là delle direttive della Casa Bianca, che continua a distanziarsi dallo schierare boots on the ground: ma in fondo le forze speciali impiegate col contagocce, sono previste dalla dottrina di guerra leggera di Barack Obama. Contemporaneamente, al Abadi, ha fatto sapere che truppe militari “straniere” non sono necessarie.

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