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Ormai avvocato, egli se l’è presa con i troppi ex colleghi che non assomigliano a Giancarlo Caselli e Nino Di Matteo, limitandosi ai vivi, per cui varrebbero poco o nulla come magistrati. Ed ha trovato “stupefacente, incomprensibile, paradossale”, in un paese alle prese con “corruzione, Mafia Capitale” e altre calamità sociali e giudiziarie, l’ispezione ministeriale disposta a Palermo dal guardasigilli Andrea Orlando per accertare “l’effettiva documentazione e corretta custodia” di qualcosa che lo stesso Ingroia ha conosciuto bene come procuratore aggiunto e ricorda con tanta nostalgia, diciamo così, da essersi proposto di scriverne in un romanzo.

Si tratta naturalmente delle intercettazioni disposte a suo tempo sulle utenze telefoniche di Nicola Mancino, in cui finirono anche quattro chiamate all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sempre lui. Il quale, non essendo costituzionalmente intercettabile, né direttamente né indirettamente, a dispetto delle convinzioni della Procura di Palermo, ma anche della disinvolta tolleranza mostrata in materia da qualche suo predecessore, pretese la distruzione dei nastri che lo riguardavano. Nastri, peraltro, che gli stessi inquirenti avevano riconosciuto irrilevanti per gli accertamenti giudiziari sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia di oltre vent’anni fa, nella stagione degli omicidi eccellenti e delle stragi cominciata nel 1992 con l’assassinio di Salvo Lima, il luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia.

Quando la Procura di Palermo oppose alla richiesta di Napolitano talune norme procedurali che avrebbero potuto fare ascoltare le registrazioni delle telefonate agli avvocati degli imputati prima di deciderne la distruzione, con il rischio quindi che esse finissero ugualmente in qualche redazione di giornale, se non vi erano già arrivate per altre vie, il Quirinale ricorse clamorosamente alla Corte Costituzionale. Che nel giro di qualche mese diede torto ai magistrati e ragione a Napolitano.

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Neppure la sentenza della Corte Costituzionale, per quanto inappellabile per disposizione della Costituzione, riuscì a disarmare Ingroia e i suoi superiori e subordinati. Si consentì pazientemente alla difesa di quello stinco di santo di Massimo Ciancimino, figlio del più celebre e mafioso Vito, di allungare i tempi delle procedure con un ricorso alla Cassazione. Che naturalmente lo respinse, per cui si dovette finalmente procedere alla distruzione delle intercettazioni, fra la delusione di quanti non vedevano l’ora di poter pubblicare le informazioni, attendibili o artefatte, di cui già disponevano. E che circolavano un po’ dappertutto a livello di voci.

Alla distruzione si procedette, in particolare, come ha ricordato al solito Fatto Quotidiano proprio Ingroia, “la mattina del 22 aprile 2013 nell’aula bunker dell’Ucciardone, a Palermo, alla presenza del giudice Riccardo Ricciardi e di un tecnico della società Rcs”, da non confondere evidentemente con l’editrice del Corriere della Sera, “che gestisce le intercettazioni alla Procura” palermitana. Ma fu veramente distrutto tutto ? O intervennero prima manipolazioni, ricavandone magari delle copie? Anche a queste ed altre domande intende rispondere l’ispezione ministeriale che ha tanto sorpreso Ingroia, e i magistrati che ne hanno ereditato il lavoro a Palermo.

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“Se qualcuno lo avesse fatto, avrebbe commesso un reato. Se venisse fuori una cosa del genere, ci sarebbe da indagare”, ha ammesso, bontà sua, Ingroia non rendendosi evidentemente conto di contraddire così le sue critiche alla “stupefacente” decisione di un’ispezione ministeriale, che è di per sé un’indagine. A meno che Ingroia -come d’altronde, molti suoi ex colleghi, fra i quali i procuratori di Milano insorti nel 1995, all’epoca di “Mani pulite”, contro le ispezioni disposte sui loro uffici dall’allora ministro della Giustizia Filippo Mancuso- non ritenga che le indagini spettino solo ai magistrati ordinari, non agli ispettori ministeriali, peraltro magistrati pure loro per legge.

In verità, quella scritta con la sostanziale destituzione di Mancuso dal governo, non fu una bella pagina né per la Giustizia né per la Costituzione. Che affida chiaramente al guardasigilli, nell’articolo 107, “la facoltà di promuovere l’azione disciplinare” contro magistrati sospettati evidentemente di non avere fatto il loro dovere. E nell’articolo 110, pur “fatte salve le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura”, assegna al guardasigilli “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Servizi dove evidentemente non si possono fare copie di documenti, nastri o quant’altro destinati alla distruzione.

Marco Travaglio, Antonio Ingroia e Antonio Di Pietro

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