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Qualche mese fa, sull’intelligenza artificiale Kamala Harris era stata piuttosto chiara: “Bisogna rifiutare la falsa scelta che suggerisce che possiamo o proteggere il pubblico o far progredire l’innovazione. Possiamo e dobbiamo fare entrambe le cose”. Il suo arrivo alla Casa Bianca da vicepresidente è combaciato con il proliferare di nuove tecnologie, comprese quelle con IA generativa che si trascinano dietro molti rischi, oltre ovviamente tanti altri benefici. Motivo per cui Harris si è fatta promotrice di una serie di battaglie per imporre dei paletti all’industria tech, in modo tale da indirizzare positivamente lo sviluppo. Qualora a novembre dovesse venire confermata a Washington, ma questa volta con un grado superiore, c’è quindi da credere che continuerà con il suo lavoro.

In realtà, è tutta la carriera che Harris si confronta con le Big Tech – non per niente perché arriva dalla California, Stato-base della Silicon Valley. Come ricorda il New York Times, da ex procuratrice distrettuale di San Francisco e successivamente dello stato di cui è capitale si è battuta per varare leggi contro il cyberbullismo, per proteggere la riservatezza dei minori e contro il revenge porn purtroppo ampiamente diffuso sulle piattaforme social. Nel 2015 si era fatta ospitare nella sede di Facebook, dove ha parlato di un uso più sicuro di Internet.

Da vicepresidente, con un ruolo più decisionale, ha aiutato Biden nel progettare l’ordine esecutivo con cui hanno sollecitato i parlamentari ad adottare regolamenti a difesa dei lavoratori (ottenendo scarsi risultati) e ha convocato alla Casa Bianca i ceo di Anthropic, Google, OpenAI e Microsoft per chiedergli maggiore attenzione e condividere degli standard di sicurezza. Il presidente in carica non aveva troppa esperienza in materia tecnologica, per cui si è lasciato guidare da chi ne sapeva di più, compresa Harris. La stessa che potrebbe prendere il suo posto dopo le elezioni di novembre.

Va da sé che, qualora diventasse presidente d’America, Harris continuerebbe sulla strada già tracciata. Possiamo quindi aspettarci una stretta sulle Big Tech, non per soffocare l’innovazione ma per garantirne una senza rischi annessi, come sostenuto dalla diretta interessata che già in passato aveva strappato l’endorsement di alcuni grandi nomi della Silicon Valley. A finanziare parte delle sue precedenti campagne elettorali erano stati John Doerr, uno dei primi ad aver investito in Google, Jony Ive, già designer ad Apple, e Sheryl Sandberg, stretto collaboratore di Mark Zuckerberg. E, in vista delle prossime presidenziali, ha già ricevuto il bonifico di Reid Hoffman, co-fondatore di LinkedIn e donatore del Partito Democratico di lunga data. Sicuramente farà il tifo per lei suo cognato, avvocato di Uber.

Il settore tecnologico entra quindi di diritto nelle presidenziali americane. Non per niente, perché l’approccio di Harris differisce totalmente da quello del suo avversario, Donald Trump. Entrambi vogliono naturalmente il progresso del proprio paese, ma la democratica vorrebbe farlo con delle leggi chiare imposte dall’alto, mentre il repubblicano lasciando piena libertà alle aziende – sempre al grido di “Make America First in AI”. Il tycoon è per una deregolamentazione e la sua idea ha già affascinato più di qualcuno.

I gemelli Marc e Ben Horowitz, tanto per dirne un paio, certi che le limitazioni arrecano “uno svantaggio per gli Stati Uniti rispetto al resto del mondo”. Ed Elon Musk, timido democratico diventato improvvisamente un ultra’ trumpiano. Il patron di X, SpaceX e Tesla ha negato di voler donare 45 milioni di dollari al mese all’American Pac di Trump – mentre giusto qualche giorno fa, il front-runner del Gop aveva confermato la notizia – ma il suo appoggio rimane solido. Anche la tecnologia serve a comprendere la contrapposizione tra due visioni opposte di America.

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