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Combattere, uccidere e morire. E, magari, farlo anche gratis, o quasi. In Russia succede anche questo ai tempi della grande crisi economica che ha colpito l’ex Urss, ormai stretta in una morsa mortale, fatta di sanzioni, embarghi al petrolio e siti per la raffinazione finiti fuori uso. Tutto parte da un paradosso: un Paese che ha imperniato la propria economia sull’industria bellica, ora vede quella stessa industria perdere pezzi, giorno dopo giorno.

Motivo? Non ci sono più soldi per garantire salari all’altezza dell’inflazione, che in Russia viaggia ancora su livelli intorno al 10%, ai massimi da tre decenni. E così, un poco alla volta, le imprese perdono posti di lavoro e il comparto si svuota. Una transumanza che rischia di far perdere al Cremlino l’unica certezza che ha, quell’industria delle armi e delle munizioni che ha impedito, almeno finora, il collasso della Russia.

Ad agosto di quest’anno, secondo un’inchiesta condotta dalla testata indipendente russa Novaya Gazeta, gli stipendi dei militari, sia quelli impegnati in prima linea, sia quelli impiegati in ufficio o nella retrovia, hanno smesso di crescere. Dunque, di tenere il passo del costo della vita. E pensare che fin dai mesi antecedenti l’invasione e fino a poche settimane fa, le retribuzioni del personale salariale erano in costante ascesa, garantendo il sostentamento di chi sceglieva la leva. C’è di più.

I posti vacanti sono in aumento, per i motivi di cui sopra e per chi decide di indossare la divisa e andare al fronte è previsto uno stipendio ridotto del 10% rispetto ai livelli dei mesi passati. Non certo un incentivo a imbracciare le armi. Il problema dei bassi salari, poi, riguarda anche le Ferrovie russe, che stanno registrando un costante calo in termini di assunzioni.

Certo, si vendesse più petrolio, ci sarebbero più soldi da mettere nelle buste paga dei dipendenti della Difesa e dei soldati. Impossibile, però, al momento. La campagna ucraina di attacchi con droni contro le raffinerie di petrolio della Russia ha infatti lasciato le esportazioni di carburante russe avvicinandosi al loro livello più basso dal 2020, interrompendo una fonte chiave di entrate per il Cremlino. Sedici delle 38 raffinerie russe sono state colpite dall’inizio di agosto, alcune delle quali più volte, tra cui uno dei più grandi impianti di lavorazione del carburante della Russia, lo stabilimento di 340.000 barili al giorno a Ryazan, vicino a Mosca.

Le esportazioni, se mantengono il tasso attuale, scenderanno al totale mensile più basso a settembre dal 2020. “Sembra essere la campagna più efficace che l’Ucraina ha portato avanti finora”, ha detto Benedict George, responsabile prezzi dei prodotti petroliferi europei di Argus, azienda che riporta i prezzi delle materie prime. Senza considerare che un numero crescente di regioni russe, compresi i territori occupati, affrontano la carenza di benzina, con i prezzi all’ingrosso aumentati di oltre il 40% da gennaio.

L'inflazione corre, i salari no. Anche l'industria bellica tradisce Mosca

Negli ultimi mesi, complici le minori entrate da idrocarburi e la distruzione delle raffinerie sul fianco ovest, per mano dell’Ucraina, le retribuzioni del personale militare, sia di prima linea sia di retrovia, hanno smesso di crescere. Mentre i prezzi continuano ad aumentare. E così il Cremlino perde una delle poche certezze rimaste

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