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Il bilancio di fine anno per l’Italia è magro. Il 2015 si avvia a chiudersi ben diversamente da come qualcuno raccontava e da come tutti speravano. La ripresa economica ha perso slancio anziché prenderne con il passare dei trimestri. Sì, è vero, ci siamo lasciati la recessione alle spalle, e non è poco, considerato che ce la trascinavamo dietro dal 2008 e che ci ha fatto perdere 10 punti di pil – in soldoni 150 miliardi – e si è mangiata un quarto della nostra capacità produttiva industriale. Ma proprio perché è così tanto ciò che dobbiamo recuperare – e solo per riallinearci al 2007, cioè l’anno che concludeva un quindicennio di stagnazione economica in cui il nostro paese ha perso il treno di due rivoluzioni epocali come la globalizzazione e l’avvento della tecnologia digitale – proprio perché, si diceva, è enorme il gap che dobbiamo colmare, che certo non c’è da essere allegri se chiudiamo l’anno con un più zero virgola. Che poi sia 0,7 o 0,8 poco importa: è comunque troppo poco. Anche perché questo risultato lo abbiamo conseguito in un quadro congiunturale mai così favorevole: liquidità, tassi a zero, petrolio a prezzi stracciati, cambio che favorisce le esportazioni. Senza questi “aiutini” esterni, saremmo ancora in recessione, altro che “l’Italia è ripartita” e compagnia sloganante.

Quanto alla politica, ci pare esaurita la spinta propulsiva – che pure c’è stata, e non di poco conto – del governo Renzi. E questo non per la vicenda del presunto conflitto d’interessi di Banca Etruria – semmai quello è un sintomo della malattia, non una causa – o perché qualche osservatore ha giudicato l’appuntamento della Leopolda meno brillante dei precedenti (inevitabile che un format di opposizione non funzioni quando si è al governo). No, la curva discendente è dovuta al fatto che il Paese non ha riacquisito quella fiducia che andava cercando e che per un momento si era illuso di poter ritrovare. Anzi, è crescente il numero di italiani stanchi di sentirsi raccontare che le cose vanno bene, considerato che così non è, e che ricomincia, lentamente ma inesorabilmente, a rifluire verso una psicologia collettiva di tipo depressivo. Basta leggersi l’ultimo rapporto Censis per capire il perché, e misurare la dimensione del fenomeno.

Tuttavia, sarebbe sbagliato, oltre che ingeneroso, vedere solo la parte vuota del bicchiere. Alcune cose sono accadute, e il 2015 è archiviabile come significativamente diverso dal 2008 o dal 2011, per dire i due anni peggiori del settennato horribilis. Ma, soprattutto, oggi ci sono le condizioni per imprimere velocità al cambiamento e indirizzarlo nella direzione giusta. Ad una condizione, però: che chi guida il Paese faccia un salto di qualità, che si disponga verso una maturità politica che gli tolga di dosso il vestito stretto della “inevitabilità” – della serie, Renzi è a palazzo Chigi e ci resterà perché non ci sono alternative valide – e gli faccia indossare quello della “scelta”, perché è lungimirante il suo programma, perché l’azione di governo è coerente con gli impegni presi e perché, infine, mostra di voler e saper costruire intorno a lui una classe dirigente selezionata per il merito (che non ha età) e non per la fedeltà e il familismo. Insomma, un Renzi due. Non necessariamente in termini di governo bis, anche se la compagine andrà di certo rafforzata, ma nel senso di una nuova modalità di approccio al Paese e ai suoi problemi.

Di cosa stiamo parlando? Se possiamo dare qualche consiglio non richiesto, la prima cosa da fare è dismettere quella fastidiosa iattanza nel presentare il proprio lavoro. Per capirci: noi siamo sicuri che nelle condizioni date – cioè i problemi strutturali che si sono creati ed aggravati nell’ultimo quarto di secolo, e che non sono certi aggredibili con un colpo di spugna – non sarebbe comunque stato possibile ottenere un risultato significativamente diverso da quello ottenuto quest’anno. Tuttavia, l’errore è averlo fatto credere. Se all’inizio dell’anno si fosse detto “con tutte le palle al piede che abbiamo è già tanto se aumentiamo il pil di mezzo punto”, oggi il +0,7% o il +0,8% che sia, apparirebbe come un mezzo miracolo e il clima che si respirerebbe nel Paese sarebbe di maggiore speranza. Invece si è preferito usare con disinvoltura l’effetto annuncio, si è scelto di bollare tutti come gufi menagramo coloro che obiettavano – finendo per mettere nello stesso mazzo gli ottusi, i qualunquisti e gli affetti da paranoie ideologiche con i riformisti seri, che volevano solo pungolare e suggerire – e così oggi sono pochi quelli che guardano la parte piena del bicchiere, che pure c’è anche se in misura minore di quel che si va raccontando.

Il secondo consiglio è di chiudere in modo anche formale la stagione della cosiddetta “rottamazione” e aprire quella, più raffinata ma più utile, della “rupture constructif”, in cui si mischiano sapientemente elementi di discontinuità e logiche di inclusività. Renzi fin qui ha applicato la politica della disintermediazione a tutti i costi. Scelta comprensibile e per molti versi necessaria per un outsider come lui, ma che per sua natura non può che essere a tempo. Dopo occorre favorire nuovi momenti e luoghi di aggregazione degli interessi, senza pretendere – cosa impossibile in una società complessa, ma addirittura folle in una fase storica di caduta verticale di vecchi paradigmi e nascita di nuovi come questa – di esserne in modo diretto ed esclusivo l’unico punto di riferimento. Rompere vecchie incrostazioni – sacrosanto – non significa disconoscere il valore delle alleanze, e uno statista da un politichetto (per dirla alla De Luca-Crozza) si distingue anche per la capacità di tessere aggregazioni e costruire sodalizi in modo non strumentale.

Infine, l’ultimo consiglio (sempre non richiesto), conseguente i primi due: predisporre un armamentario programmatico meno episodico, più strutturale, tanto sul fronte della questioni interne – la politica economica in primis – quanto su quello del posizionamento dell’Italia nelle vicende internazionali, europee e non. Terza Repubblica in questi anni ha dedicato molto spazio e speso intelligenza a delineare un programma di governo di vera rottura con il passato. Basta attingere, volendo.

Renzi, dieci anni fa ormai, ha scritto un libro dal titolo evocativo: “Tra De Gasperi e gli U2”. Ecco, è più che sufficiente studiare e copiare il primo, quello che lo stesso Renzi appena trentenne considerava già un punto di partenza. Vedrà, il presidente del Consiglio, che così diventerà il prescelto, non quello che ci tocca farci andar bene perché “chi altro c’è?”. E vedrà che l’Italia potrà davvero ripartire. Che il bisesto 2016 porti consiglio. Buon anno a tutti.

(articolo pubblicato sul sito Terza Repubblica)

Tre consigli (non richiesti) a Matteo Renzi

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