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Quel reality nello Studio Ovale, in cui il presidente americano Donald Trump mette alla porta il presidente ucraino Volodymyr Zelensky mentre il suo vice JD Vance fa la faccia cattiva per recuperare posizioni nei confronti di Elon Musk, passerà alla storia come uno dei momenti più drammatici della lunga guerra di resistenza di un piccolo grande popolo contro le mire del Cremlino. In quei pochi momenti è stato come se cent’anni di storia contemporanea precipitassero nel grande buco nero di un rivolgimento senza precedenti. In cui l’oro si trasforma in ottone e il ferro in piombo. In cui i grandi valori dell’Occidente scivolano in un lungo oblio.

Come affrontare un momento così drammatico? Guardando agli equilibri politici italiani? Sciocchezze. La statura di piccoli leader, di maggioranza e opposizione, alla ricerca una improbabile legittimazione. Pensando alla Russia di Vladimir Putin? Il nuovo zar brinda per il successo tattico riportato. Senza muovere un dito ha disarticolato l’Alleanza atlantica. Ha inserito un cuneo tra le due sponde dell’Oceano. Ha ottenuto ciò che gli era stato negato in tre anni di guerra. Ammirando i sacrifici di un popolo, ai confini della vecchia Europa, che preferisce continuare a lottare piuttosto che ricadere sotto il giogo dei suoi antichi padroni? Oppure partendo dall’Europa? Quell’incompiuta più pronta alla parola, che non all’azione? Per non parlare, infine, degli stessi Stati Uniti. Sempre meno decifrabili, nei comportamenti del suo attuale establishment.

Questi dubbi possono essere sciolti solo mettendosi dal punto di vista diverso, che è quello di tutto l’Occidente. Vale a dire da quel complesso di Paesi che sono uniti da tradizioni storiche antiche e dai valori che hanno segnato il drammatico decorso del “secolo breve”. Senza per questo cedere ad alcun sentimentalismo. Ma avendo chiare le ragioni vere del decorso della crisi. Si può infatti pensare che l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin sia solo una sorta di rigurgito imperialista? Da un lato un Paese come la Russia che si estende per oltre 17 milioni di chilometri quadrati, dall’altro un territorio che ne vale una percentuale infinitesima. È come se la Francia dichiarasse guerra all’Italia per riprendersi lo scoglio di Tavolara (6 chilometri quadrati) in Sardegna. E fosse disposta a sacrificare, per questo obiettivo, centinaia di migliaia di soldati. Semplice non senso.

È questo ciò che non quadrava fin dall’inizio. In particolare, dal 2008, con l’aggressione in Georgia; quindi, nel 2014, la Crimea; e ora, dal 2022, l’invasione dell’Ucraina. Gli episodi di una guerra progressiva contro tutto l’Occidente. Altrimenti altri Paesi, a partire dalla Cina, avrebbero fatta sentire la loro voce in difesa dei principi del diritto internazionale. Quando, invece, quei precedenti potevano rappresentare la legittimazione di future iniziative. La mente corre, inevitabilmente, ai rapporti tra Pechino e Taiwan e alla teoria di “una sola Cina”. Che gli stessi Stati Uniti, seppure in forma ambigua, avevano prima fatta propria, poi contestata. Putin non ha fatto altro che rompere il ghiaccio. E ora a Xi Jinping non resta che imitarlo. Ma non potrà essere un bis dell’“operazione militare speciale”.

Secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, nel 2029 il peso dell’Indo-Pacifico sull’economia mondiale sarà pari al 47,7 per cento. Una grandezza che è più che raddoppiata dagli inizi degli anni Ottanta, costringendo tutte le altre parti del mondo, compreso Stati Uniti ed Europa, a regredire. Sempre per quell’anno il peso dell’economia americana (Stati Uniti e Canada) sarà del 17,1 per cento e quello dell’intera Europa del 20 per cento. Solo una prima indicazione, poiché all’interno di quei grandi aggregati esistono situazioni non omologabili. Nella grande area dell’Indo-Pacifico, per esempio, vi sono gli alleati storici degli Stati Uniti, come l’Australia, la Nuova Zelanda, il Giappone, la Corea del Sud, e la stessa Taiwan, per citare solo i Paesi principali. Il peso della Cina è comunque debordante: pari quasi al 40 per cento dell’intera area. Dato, quest’ultimo che non tiene conto della Russia, il cui territorio si estende dal Mar del Giappone fino all’Artico. Vladivostok, considerata la “San Francisco russa”, è terra di confine con la Cina, ma anche la sede del quartier generale della flotta del Pacifico. Cosa farà una Russia ringalluzzita dall’eventuale vittoria contro Zelensky?

Se poi dai soli dati dell’economia si passa alla politica il quadro non fa che peggiorare. Da un lato l’apatia di Trump e dei suoi consiglieri, dall’altro l’attivismo cinese che stringe rapporti commerciali e militari, o tenta di farlo, con tutti i singoli Paesi dell’area. L’ultimo, in ordine di tempo, con le Cook Islands, che ha particolarmente allarmato la Nuova Zelanda. In precedenza, accordi analoghi erano stati conclusi con numerosi altri Paesi e avevano comportato interventi di natura infrastrutturali, trattati commerciali, o intese di natura strategica o securitaria. Come quelli con Kiribati o le Isole Salomone, i cui dettagli sono rimasti riservati. Due le direttrici della politica estera cinese nella zona: la penetrazione economica e commerciale e il condizionamento contro Taiwan. L’esigere da parte dai nuovi partner l’interruzione delle relazioni diplomatiche con quest’ultima, in un evidente ottica annessionistica.

A una strategia così duttile, come quella cinese, finora Trump ha risposto in modo incomprensibile. Ha quasi rotto con il Canada e il Messico, aperto una frattura nell’alleanza storica con l’Unione europea, in parte avallato le pretese di Putin, mentre nell’Indo-Pacifico la presenza americana risulta indebolita da fatti che pur risultando indipendenti dalla volontà del tycoon – si pensi alla crisi politica della Corea del Sud – non hanno fatto altro che rafforzare la presenza di Xi. Ancora più preoccupante la trama sottesa alle due diverse strategie: da parte dei nemici storici dell’Occidente la volontà di consolidare un collaudato sistema di alleanze. La guerra in Ucraina è combattuta con i soldati provenienti dalla Corea del Nord e i droni forniti dall’Iran. Che, a sua volta, è il regista degli attacchi contro Israele, grazie alle milizie di Hamas, Hezbollah e Houthi. Trump, invece, si muove in solitaria, trasformandosi da leader riconosciuto dell’Occidente, nel semplice capo di una nazione indubbiamente potente, ma non fino al punto di poter reggere un urto così gravoso, come quello che si profila all’orizzonte.

Si dice che, tatticamente, il presidente americano non abbia voluto far altro che suonare la sveglia nei confronti di un Europa da tempo Biancaneve addormentata nel bosco. Una sorta di principe azzurro dalle ruvide carezze. Sarà senz’altro così. Ma sia consentito dissentire. La sveglia all’Europa l’ha suonata la Russia invadendo l’Ucraina, rendendo manifesta una volontà di potenza tesa a difendere ciò che Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, ha definito essere gli “interessi” della Russia. Purtroppo incompatibili con l’evoluzione più recente del Vecchio continente. Ed ecco, allora, la necessità di una reazione. Trump o non Trump, è giunto il momento in cui l’Europa deve cominciare a pensare a sé stessa. Ma soprattutto ad agire.

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