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Nel mese di maggio il costo delle spedizioni di un container via Suez è tornato a salire, e secondo le stime le compagnie che trasportano merci tra Europa e Asia si stanno preparando perché potrebbero dover affrontare costi fino a 10.000 dollari per una urgent shipment di grandi dimensioni nel prossimo mese. Questo significa che potremmo trovarci davanti a qualcosa come il doppio delle tariffe spot attuali, secondo i prezzi che circolano tra vettori e importatori.

La crisi lungo le rotte dell’Indo Mediterraneo destabilizzate dagli attacchi degli Houthi dura ormai da sette mesi, e nonostante le attività di sicurezza messe in piedi sia dall’Unione europea che dagli Stati Uniti, continua a interrompere le spedizioni e a scuotere le reti di approvvigionamento. Maersk, per esempio, ha annunciato nei giorni scorsi che sta effettivamente trasformando il suo servizio ME2, Medio Oriente/India-Mediterraneo, in un anello nord europeo, con conseguenze pessime innanzitutto per i Paesi mediterranei come l’Italia. La società sostiene che per soddisfare l’aumento della domanda da parte degli esportatori indiani — alle prese con limiti di capacità e prezzi in forte aumento dall’inizio degli attacchi Houthi — serva una “estensione strategica del servizio ME2 verso le principali destinazioni del Nord Europa”, la quale “andrà a beneficio degli esportatori dell’India del Nord, in particolare quelli dei settori lifestyle e vendita al dettaglio. La precedente rotazione portuale, iniziata a Mundra e caratterizzata da una serie di scali nel Golfo e nel Mar Rosso prima di transitare su Suez e fare scalo nei porti spagnoli e italiani prima di virare a Tangeri, è stata interrotta. I porti del Mediterraneo saranno ora serviti tramite trasbordo da Tangeri e il servizio è stato allungato per includere nuovi scali a Felixstowe, Rotterdam e Bremerhaven.

Si tratta di un pesante reindirizzamento dei flussi lontano dallo Stretto di Bab-el-Mandeb e verso lo Stretto di Gibilterra, che innanzitutto esclude il Mediterraneo dalle rotte dirette per l’Asia e rischia comunque di esporre i traffici a una nuova problematica di sicurezza: l’area marocchina. Nella regione del Sahara, l’Iran, anche grazie al supporto dell’emanazione libanese Hezbollah, ha fornito in passato un sostegno informale al Fronte Polisario. Se il gruppo che rivendica l’indipendenza sahrawi contro Rabat dovesse tornare alla fase belligerante, e dovesse ricevere qualcosa di simile a quello che hanno ricevuto gli Houthi, il rischio è che si possa aprire un altro fronte. D’altronde, sul Mar Rosso si è creato il precedente.

È una conseguenza della fine della deterrenza occidentale nella regione, che è entrata in una fase di disordine – aggravata dalla guerra israeliana avviata dall’attacco di Hamas, anch’essa un’ulteriore dimostrazione della fine della deterrenza da parte dello stato ebraico e degli alleati. Gli Houthi, che sostengono di agire come rappresaglia e protezione dei palestinesi (ma pensano ai negoziati per il futuro dello Yemen, dopo aver conquistato mezzo Paese in questo decennio di guerra civile), hanno recentemente rivendicato di aver abbattuto un altro drone statunitense, per esempio.

Sarebbe il sesto MQ-9 Reaper abbattuto da novembre scorso a oggi, ossia dall’inizio della destabilizzazione geoeconomica globale che gli Houthi non hanno avuto timore di avviare (attraverso le armi fornite dai Pasdaran nel corso di questo ultimo decennio). Sebbene le immagini del velivolo, calpestato dai sandali dei guerriglieri in abaya e Kalashnikov, facciano pensare che non si sia trattato (almeno questa volta) di un ingaggio cinetico (ma forse il drone è planato a terra dopo un malfunzionamento), il dato è che gli yemeniti non hanno paura di mostrarsi con in mano uno dei gioielli della difesa statunitense e di rivendicare il colpo inferto a Washington. Anzi: venerdì hanno anche annunciato di aver colpito la USS Eisenhower, portaerei americana dall’aurea mitologica (al punto che è conosciuta con il suo soprannome, “Ike”): l’attacco non era vero, ma rivendicarlo è di una sfacciataggine senza eguali.

Mercoledì – come risposta dei primi carri armati israeliani filmati nell’area urbana di Rafah – gli Houthi hanno rivendicato, tramite una dichiarazione televisiva del portavoce del gruppo, attacchi simultanei contro sei navi operanti su tre diversi mari, Mediterraneo, Mar Arabico e Mar Rosso, seguendo la scia della propaganda con cui affermavano che avrebbero colpito lungo tutto il raggio di portata possibile delle armi che hanno a disposizione. Almeno uno degli attacchi è andato a segno, mentre sugli altri non ci sono conferme effettive.

A fornire le informazioni sul successo del raid è la società di sicurezza marittima Lss-Sapu, che ha uomini a bordo della Laax, una bulk-carrier battente bandiera delle Isole Marshall, colpita da una salva di missili e droni. Portava grano con una destinazione particolare: il porto Imam Khomeini di Bandar Abbas, in Iran. Ossia gli Houthi hanno colpito un cargo che trasportava grano verso il Paese che li ha (quanto meno) militarmente finanziati. E non è la prima volta, così come nelle scorse settimane e mesi sono state colpite navi associabili a Russia e Cina, nonostante Mosca e Pechino avessero cercato di stringere accordi pragmatici con gli yemeniti – e non partecipino alle operazioni per ricostruire la sicurezza collettiva.

Lss-Sapu fa sapere che la Laax non sta imbarcando acqua, ha ricevuto un’ispezione da un team francese partito da Gibuti (secondo le informazioni fornite dalla base emiratina con cui la Franca lavora nella regione) e può cominciare a navigare verso l’Iran. Val la pena ricordare che Lss-Sapu è la società (con sede in Grecia, Cipro, Emirati) che aiutò l’evacuazione della Rubymar, la nave colpita e affondata dagli Houthi che durante il suo vagare alla deriva ha tranciato tre cavi sottomarini con la sua ancora di prua e prodotto una riduzione di potenza Internet in tutta la regione.

Torna una questione già da tempo dibattuta: gli Houthi non si stanno fermando, anzi. Le missioni di protezione delle rotte hanno limiti oggettivi, perché non possono continuare ad abbattere i droni e i missili in eterno, e quelle offensive (condotte solo da Usa e Regno Unito per ora) non stanno funzionando. Emerge da più lati la volontà di fare qualcosa di più sul campo, per poi magari innescare un processo di carattere negoziale successivo, ma intanto bloccare l’aumento dei prezzi legato alla destabilizzazione. Sebbene in Europa l’opinione pubblica sia disattenta e quella politica spesso concentrata su altre faccende più connesse al consenso, è evidente che la situazione è insostenibile: la geoeconomia globale minacciata da entità non-statuali, che spesso perdono discernimento totale e colpiscono anche i propri protettori, sta influenzando le quotidianità di milioni di persone.

Nelle scorse settimane, il contrammiraglio greco Vasileios Gryparis, comandante operativo della missione difensiva europea “Aspides”, ha avvertito in un incontro confidenziale a Bruxelles — avuto con i rappresentanti diplomatici dell’Ue — che dopo il ritiro della tedesca Hessen, ci sarebbero state solo tre fregate disponibili per i prossimi mesi. Ed è evidente che vista la portata della sfida servano più assetti: e probabilmente anche una diversa attività.

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