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La disinformazione rappresenta oggi una minaccia. Alberto Pagani e Mario Caligiuri esplorano a fondo il tema nel loro libro, intitolato “Disinformare: ecco l’arma. L’emergenza democratica ed educativa del nostro tempo” (Rubbettino). Il volume indaga una guerra – che ha come bersaglio l’Occidente – basata su tattiche sofisticate e multiformi volte a sfruttare le vulnerabilità delle democrazie liberali. In questo contesto, l’educazione emerge come strumento di difesa e l’Intelligence disciplina utile a rafforzare la resilienza e la sicurezza del Paese. Ne abbiamo parlato con i due autori, con una intervista doppia.

Guerra dell’informazione, l’analisi di Pagani. Si dice che la prima vittima della guerra sia sempre la verità…

Le narrazioni bugiarde informano, in senso letterale, perché plasmano l’opinione pubblica. In guerra il consenso sociale riveste un ruolo determinante: condizionarlo diventa obiettivo strategico. Per raggiungerlo si adottano metodi finalizzati non a diffondere la verità, bensì a convincere che la ragione sta dalla propria parte. Entrambe le parti mentono, perché l’informazione è strumento di guerra.

E tutti noi siamo gli spettatori di questa guerra?

Certamente. Si tratta di una guerra psicologica, definita infowarfare, combattuta attraverso operazioni psicologiche, le cosiddette PsyOps, che utilizzano diverse strategie e sfruttano i media per manipolare l’opinione pubblica al fine di creare la situazione più favorevole. È importante persuadere sia l’opinione pubblica interna sia quella dell’avversario. Il generale Valerij Vasil’evič Gerasimov, capo di Stato Maggiore della Difesa russa, la chiama “approccio olistico al danno” e integra, nella guerra asimmetrica, le milizie irregolari con l’attacco degli hacker e dei troll.

Contro quale bersaglio è orientato il conflitto?

Contro di noi, contro l’Occidente. Avere un nemico esterno – che susciti paura e meriti di essere odiato – può salvarti la vita. E se non c’è, basta inventarlo. La dezinformacijia di Putin utilizza tecniche arcaiche, quelle dell’Unione Sovietica, ma con strumenti moderni, ben più invasivi ed efficaci di un tempo. La sua narrazione ha basi solide: consiste nel produrre e veicolare messaggi ingannevoli, riferiti però a fatti reali, interpretati in chiave paranoica. Tuttavia, non dobbiamo cadere nell’errore di credere che la società della disinformazione sia unicamente il prodotto della macchina propagandistica russa. È un fenomeno assai più complesso, che va studiato in una prospettiva ampia rispetto alla sola azione degli attori russi o cinesi. La maggior parte della disinformazione è prodotta in casa, senza l’aiuto di potenze straniere ostili. Queste ultime, il più delle volte, si limitano all’innesco, lasciando che la reazione a catena faccia il resto.

Ma le vittime della propaganda non si rendono conto di essere strumentalizzate?

Una buona campagna di manipolazione deve essere invisibile. Chi è manipolato non si accorge di essere la vittima predestinata di operazioni psicologiche che utilizzano tecniche di programmazione neurolinguistica e psicologia nera per influenzare, persuadere e controllare le menti. La disinformazione non è un’appendice esterna alla guerra: è la guerra stessa. Un’arma che indebolisce e compromette le democrazie liberali: una vera e propria minaccia per l’Occidente.

A chi spetta difendere la democrazia e proteggere i cittadini?

Ogni Paese cerca di difendersi nel miglior modo possibile, ma con risultati spesso scadenti. Ci troviamo di fronte a un profondo cambiamento nel paradigma sociale. Il modello basato sulla sorveglianza, teorizzato da Michel Foucault, non corrisponde più al nostro tempo. Oggi il potere non deriva tanto dalla capacità di controllo, quanto piuttosto dal monopolio dei dati e dalla capacità di sfruttarli per esercitare influenza. Nella sfera privata, posso coltivare le mie convinzioni, mentre nella sfera pubblica posso esprimerle, contribuendo democraticamente alla formazione dell’opinione pubblica e della volontà popolare. Ma cosa accade se vi sono interferenze manipolatorie, costruite scientificamente, che infettano questo processo? Introdurre una funzione statale è molto pericoloso, perché definire le regole d’ingaggio non è semplice. Il passaggio dalla lotta alla disinformazione alla propaganda di Stato è spesso breve. La chiave di volta sta nell’istruzione. Per proteggerci dai rischi totalitari non possiamo utilizzare gli strumenti dei totalitarismi: è essenziale addestrare le persone al libero pensiero, all’analisi critica e alla riflessione indipendente. Sono convinto che la leva principale per contrastare la disinformazione sia di carattere culturale. Ma su questo Mario Caligiuri è certamente più esperto. Meglio, quindi, rivolgersi a lui.

Difesa culturale, la visione di Caligiuri: qual è oggi lo spirito del tempo, la tendenza culturale prevalente?

Ritengo sia la disinformazione che si manifesta attraverso una guerra cognitiva molto più insidiosa della guerra psicologica. La disinformazione è una caratteristica strutturale della società contemporanea e rappresenta la condizione naturale in cui noi tutti viviamo. Questo processo è caratterizzato, da un lato, dalla sovrabbondanza delle informazioni e, dall’altro, dal basso livello di istruzione. Ciò crea un corto circuito cognitivo che impedisce alle persone di percepire la realtà, rendendo complesso orientare le decisioni in modo consapevole e vantaggioso. In una società sommersa da informazioni irrilevanti, il vero potere risiede nella capacità di selezionare le informazioni, scegliere quali ignorare. Ma questo non è semplice perché richiede il possesso di criteri interpretativi della realtà e di categorie – giuridiche, mentali e culturali – per identificare ciò che abbiamo davanti agli occhi. Fake news e complottismi non sono che la punta dell’iceberg: i più facili da individuare e i meno dannosi. La vera disinformazione – quella che mina in profondità le coscienze – è la disinformazione di Stato, ossia la comunicazione istituzionale.

Cosa potrebbe accadere nell’immediato futuro?

Cominciamo con il dire che il nostro punto di vista è riferito ai Paesi industrializzati: una parte ristretta del mondo. A livello globale, l’unico modo per combattere i problemi è creare e diffondere consapevolezza. Oggi, il più grande ostacolo all’educazione risiede proprio nel modo in cui le informazioni, le conoscenze e le esperienze sono organizzate: nella loro frammentazione, in ogni fase della formazione. Perciò,̀ il ruolo della scuola è determinante. La pedagogia ha come categoria principale la formazione dell’uomo, che ha l’istinto naturale di comunicare. La comunicazione interpersonale è fondamentale: consente di trasmettere e comprendere il messaggio grazie al rapporto diretto con l’interlocutore. Per le giovani generazioni, questa forma di comunicazione sembra risultare meno immediata rispetto a quella digitale. Non a caso, oggi, il più̀ potente veicolo di autoformazione è rappresentato dalla Rete, il cui utilizzo può̀ causare dipendenza, assuefazione e intossicazione. Molte persone mostrano un calo nella capacità di concentrazione, riflessione ed elaborazione di pensiero autonomo proprio per via dell’interazione costante con il Web.

Da dove ripartire per realizzare una pedagogia realmente al passo con i tempi?

Dall’importanza delle parole, dallo studio del linguaggio, dalla trasmissione dei valori culturali e identitari, ma anche dal significato della bellezza e dall’importanza del pensiero critico. Senza trascurare la comprensione degli effetti dei media e lo studio sul futuro. Tutti questi elementi sviluppano le capacità di pensiero autonomo, rendono la mente flessibile e consentono di comprendere le distorsioni di un sistema democratico ridotto a procedura elettorale. Disporre di informazioni corrette è il fondamento per esercitare una democrazia reale, e l’Intelligence, dal punto di vista educativo, dovrebbe essere considerata un metodo scientifico per verificare le informazioni secondo criteri sperimentati e replicabili. Trasformare l’Intelligence in una disciplina accademica significa estendere questo strumento a tutti i cittadini, aiutando sempre più persone a utilizzare efficacemente le informazioni.

Esiste ancora la verità?

Non so se la verità, su questo mondo, sia mai esistita. È certo, però, che oggi – per usare le parole di Byung-chul Han – “si disintegra in polvere di informazioni spazzata via dal vento digitale”.

Ma se tale è la condizione, che senso ha avuto scrivere questo libro?

Questo volume, prima di tutto, è un invito a riflettere sulla disinformazione, sull’affidabilità delle fonti informative. È anche un atto di responsabilità, volto a contrastare l’idea che tutto possa essere risolto con la propaganda e la manipolazione. E che su queste false basi si possa costruire la convivenza sociale, mentre si assiste a allargamento drammatico delle disuguaglianze. Occorre un grande sforzo per vedere la realtà e ritornare a leggere gli eventi non come complotto cosmico ma come il più grande spettacolo del mondo.

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Un testo che è un invito a riflettere sulla disinformazione, sull’affidabilità delle fonti informative, spiegano Caligiuri e Pagani, autori di “Disinformare: ecco l’arma. L’emergenza democratica ed educativa del nostro tempo” (Rubbettino). L’intervista doppia

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