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Ancora grane per Barack Obama. Il presidente americano, oltre a subire i veti incrociati dei due rami del Congresso, entrambi controllati dai Repubblicani, deve vedersela anche col “fuoco amico” del suo stesso partito, protagonista di un clamoroso stop ai mega-trattati commerciali che potrebbero cambiare il volto della geopolitica mondiale: Tpp (sul versante pacifico) e Ttip (su quello atlantico).

FUOCO AMICO

L’ala sinistra dei democratici, la più intransigente sul tema, ha vinto ieri la sua prima battaglia contro i due accordi. Il Senato non è riuscito infatti a raggiungere la maggioranza qualificata di 60 voti per aprire il dibattito su un documento che – come spiega Politico –  darebbe al presidente un’autorità negoziale speciale, il Trade promotion authority (Tpa). Questo potere creerebbe i presupposti per la cosiddetta “fast track”, una sorta di via prioritaria per il capo di Stato Usa per firmare intese commerciali (tra le quali la Trans-Pacific Partnership e la Transatlantic Trade and Investment Partnership, appunto) e presentarle solo dopo a Capitol Hill per il voto senza la possibilità di emendarle, ma solo di esprimere un sì o un no. Prendere o lasciare, dunque. Uno scenario che è stato osteggiato da un gruppo eterogeneo non solo di politici (come la senatrice democratica Elizabeth Warren, in passato vicina ad Obama e uno dei nomi alternativi più forti per contrastare lo strapotere di Hillary Clinton), ma anche di sindacati, ambientalisti e gruppi anti-sistema come i No-Global o contro gli Ogm.

I NODI

Il voto di martedì si è concluso con 52 preferenze a favore e 45 contrarie. In particolare a preoccupare i democratici (e alcuni esponenti della destra repubblicana) – ai quali non bastano le rassicurazioni su crescita e occupazione – sono gli effetti negativi che i trattati potrebbero avere sui cittadini americani e vogliono per questo ulteriori garanzie. Ad esempio, che nel pacchetto siano inclusi alcuni elementi come assistenza per i lavoratori svantaggiati dall’accordo, maggiori protezioni sulle condizioni di lavoro e impegno maggiore a combattere la manipolazione delle valute. Se questi passaggi fossero inseriti, rivela la stampa statunitense, ci sarebbero almeno 10 democratici pronti a sbloccare la procedura e andare al voto. E anche il Gop, in fondo favorevole alle nuove intese commerciali, ha dichiarato attraverso il suo leader al Senato, Mitch McConnell, che ci sono ancora possibilità per arrivare a un punto in comune tra i due schieramenti. Nel frattempo, dunque, i negoziati proseguono, ma difficilmente l’ipotesi di introdurre ulteriori variazioni nel testo potrà trovare terreno fertile alla Casa Bianca. Cambiare le carte in tavola a percorso iniziato potrebbe infatti spingere le controparti a ritirare definitivamente la propria adesione ai trattati, segnando per Obama e per il suo capo negoziatore commerciale, l’ambasciatore Michael Froman, una clamorosa sconfitta politica, personale e mediatica. Il presidente americano, inoltre, non vuole concedere nulla rispetto a quello che considera “un interesse nazionale” degli Usa e ha deciso perciò di fare dei trattati una priorità, premendo sull’acceleratore.

IL FRONTE ASIATICO…

Se realizzati, i due accordi (ai quali andrebbe aggiunto anche il Tisa, una sigla ancora poco nota ma di cui si sentirà presto parlare) potrebbero costituire una delle vittorie maggiori del presidente americano che in un colpo solo darebbe da un lato una forte spinta all’economia mondiale grazie all’abbattimento di numerose barriere commerciali, e dall’altro getterebbe le basi per un nuovo equilibrio teso a ridimensionare le mire sempre più alte di Pechino. La Tpp darebbe infatti il via ad una mega-accordo tra le 12 nazioni che coprono il 40% del Pil globale ed escluderebbe la Cina. Tuttavia il tempo stringe. La Repubblica Popolare non sta a guardare e procede a grandi passi nella realizzazione di una nuova Via della Seta, un corridoio infrastrutturale per favorire i commerci tra Cina ed Europa da realizzare anche attraverso la recente crea­zione dell’Aiib, la Banca asia­tica per gli inve­stimenti infra­struttu­rali che annovera tra i suoi soci fondatori anche l’Italia (non senza qualche irritazione a Washington). Anche a seguito di queste intese e dei tanti investimenti fatti nelle boccheggianti economie dell’Eurozona (l’Italia non fa eccezione), Pechino potrebbe nel 2016 avere il via libera per l’agognato riconoscimento dello status di economia di mercato, che da un lato gli offrirebbe un sostegno allo sviluppo e la prospettiva di aumentare le proprie aperture commerciali verso il Vecchio Continente; dall’altro, come Paese emergente, gli darebbe l’ulteriore prestigio necessario per essere accomunato con pari dignità alle grandi potenze economiche. Un motivo in più, per Obama, per chiudere quanto prima l’accordo.

…E QUELLO EUROPEO

Ma in gioco non c’è solo il futuro dei mercati asiatici. A fare le spese dell’opposizione interna al presidente americano è anche l’Unione europea, che con Washington negozia la definizione di un trattato gemello, il Ttip.  Quest’ultimo potrebbe avere per molti analisti un peso importante per il rilancio dell’economia e per un aumento delle esportazioni italiane, come si evince indirettamente anche da uno studio della Commissione di Bruxelles. Anche per questo, il vice ministro del Mise Carlo Calenda, che ha seguito tutto il lavoro preparatorio riguardante il dossier, ha definito oggi su Twitter lo stop del Senato americano una “pessima notizia”, perché potrebbe portare a un ulteriore “slittamento” del negoziato. La partita, però, si gioca interamente negli Usa. E, per una volta, sarà il Vecchio Continente ad attendere quel che avverrà oltreoceano.

Ttip-Tpp, tutte le grane commerciali di Obama

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