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Perugia ─ Sul raid della Delta Force americana in Siria di venerdì notte in cui è rimasto ucciso Abu Sayyaf il tunisino, leader poco noto dello Stato islamico, ci sarà ancora molto da capire, auspicando la diffusione di informazioni ufficiali più dettagliate.

La cosa che è subito saltata all’occhio degli osservatori, è che la prassi del blitz non aveva niente di routinario. Di solito gli americani colpiscono i leader più significativi dei gruppi terroristici con raid aerei mirati ─ e questo succede non solo in Iraq e Siria, dove è impostata una vera e propria operazione militare che va sotto il nome di “Inherent Resolve”, ma anche in Yemen e Somalia, e sotto la direzione della Cia in Pakistan e Afghanistan. In più, anche l’annuncio a tempo di cronaca dell’operazione è sembrato strano e senza troppi precedenti ─ l’unica dichiarazione ufficiale a proposito di un raid di forze speciali in Siria, risale allo scorso luglio, quando fu resa pubblica un’azione a Raqqa che aveva come obiettivo la liberazione di alcuni ostaggi occidentali che non andò a buon fine (basta pensare che tra loro c’era James Foley e Steven Sotloff, poi decapitati dal boia del Califfo), e i dettagli non arrivarono così tempestivamente.

Una considerazione matematica su quello che è successo, porterebbe a un risultato scontato: il raid è stato rischiato perché l’obiettivo era qualcuno molto importante, che forse era più utile riportare indietro vivo ─ perché magari conosceva molte informazioni, o perché poteva essere una forte carta negoziale.

In un articolo sul Guardian, si dice che secondo l’analista iracheno Hisham al Hashimi Abu Sayyaf era molto legato al portavoce dello Stato islamico Abu Mohammed al Adnani. Al Adnani è uno dei quattro papaveri dell’IS su cui il governo degli Stati Uniti ha imposto una ricompensa ad inizio mese. Quattro elementi considerati particolarmente pericolosi per il loro ruolo chiave nella struttura del Califfato, e pure perché potrebbero prendere il posto del Califfo ─ che in questo momento è (non) ufficialmente ferito o addirittura morto, a sentire le sparate del governo iracheno, ma che ha da poco trasmesso un audio in cui chiedeva una vittoria militare, e il giorno seguente è arrivata la presa di Ramadi.

Abu Sayyaf, sulla base di ciò che è noto, occupava il ruolo centrale nell’inteso traffico di petrolio che fino a luglio scorso alimentava le casse dello Stato islamico per un milione di dollari al giorno, poi la campagna di bombardamenti americani ha ridotto sensibilmente la funzionalità delle raffinerie di contrabbando dell’IS. Sayyaf teneva i rapporti con gli acquirenti (tra questi, è noto, c’è anche il regime siriano messo alle strette energetiche), e aveva impostato la rete logistica delle vendite. È stato definito una sorta di “ministro del Petrolio”, ma nonostante il suo fosse un ruolo economicamente strumentale e di primissimo interesse, su di lui non erano state poste taglie come sugli altri top leader.

Della presenza di qualcun altro insieme a Sayyaf scrive anche il Daily Beast, che aggiunge che alcune fonti locali hanno segnalato la morte durante il blitz anche di un altro emiro dell’IS, un saudita che aveva il compito della gestione del petrolio. In più, queste stesse fonti, hanno posto l’attenzione su quella che finora è stata descritta come la moglie di Sayyaf, Umm: la donna, che è stata arrestata e condotta in un campo di detenzione americano in Iraq (sì, ce n’è uno nuovo e funzionante, e forse è a Erbil), sarebbe stata intima del Califfo Baghdadi, una parente forse, oppure addirittura una delle moglie.

Tutte ipotesi che dovranno trovare ulteriori conferme oppure saranno smentite. Un’altra lettura interessante di questo genere, è quella fornita dal Soufan Group, agenzia d’intelligence privata guidata da Ali Soufan, retroscenista del mondo dell’intelligence americana, ed ex agente dell’FBI e istruttore di varie delicate pratiche interne. In un articolo uscito poche ore fa sul sito dell’agenzia, si legge che con ogni probabilità Abu Sayyaf è un nomignolo utilizzato per indicare Tariq Bin al Tahar Bin al Falih al ‘Awni al Harzi. Al Harzi, tunisino anche lui, è uno di quei top quattro designati dal dipartimento di Stato americano: di lui si sa che è stato il fulcro per il reclutamento a cavallo della Turchia, ha tessuto le trame per ottenere finanziamenti dai ricchi del Golfo, per poi diventare capo dei kamikaze dell’IS ─ ruolo molto importante dal punto di vista strategico-militare, visto che proprio grazie a loro gli uomini del Califfo riescono spesso a rompere gli assedi (così, per esempio, è successo a Ramadi).

Al di là di queste notizie non troppo ufficiali, tutti gli analisti concordano che per giustificare il raid serviva un obiettivo molto più importante di quello dichiarato. L’azione con le forze speciali è molto rischiosa, basta pensare che i Black Hawk del 160th SOAR che hanno accompagnato i Delta sul giacimento petrolifero di al Amr dove è avvenuta l’operazione, sono tornati alla base (non dichiarata, ma probabilmente in Iraq) crivellati di colpi ─ anche se nessuno degli statunitensi è stato ferito. Inoltre, l’azione ha messo allo scoperto la rete di intelligence locale che ha permesso proprio l’individuazione degli obiettivi: una rete funzionante, giocarsela doveva valerne la pena.

@danemblog

 

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