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“Gli Stati Uniti sono il nostro modello”. Proprio mentre Matteo Renzi alla Casa Bianca proclamava la sua dottrina accanto a Barack Obama, poco più in là, nel grigio palazzo del Fondo Monetario Internazionale, si discuteva di come e perché gli Stati Uniti si stanno ritirando dall’arena mondiale mentre di loro ci sarebbe più che mai bisogno, come sottolinea un bell’articolo del New York Times che non si accontenta degli slogan ufficiali e della propaganda istituzionale. Lo stesso Renzi ha toccato con mano questa amara realtà. Alla vigilia dell’agognato incontro avevamo messo in guardia dai facili trionfalismi, non per fare i gufi o i facili profeti, ma perché le cose stanno esattamente come dicono al Fmi.

Prendiamo la Libia. Da Obama è arrivata una frenata che deve essere stata una vera doccia fredda per il capo del governo italiano. La soluzione è politica, prima ci vuole un governo e a questo debbono pensare i libici. Di interventi esterni non se ne parla proprio. L’Italia vuole guidare una missione stabilizzatrice? Non è cosa. Prima provino a mettersi d’accordo le tribù: lo ha detto lo stesso Renzi forse senza accorgersi di smentire così la “dottrina Gentiloni”.

Quanto all’ondata di rifugiati, agli sbarchi, alla guerra di corsa ormai in atto nel Mediterraneo meridionale (gli scafisti vanno considerati dei veri corsari che si muovono, appunto, con lettere di corsa firmate da fondamentalisti islamici e/o da capi tribù) ebbene ci deve pensare Roma con l’aiuto di Bruxelles (se riesce a ottenerlo). “Ma l’Italia sarà in grado di sostenere l’assalto?”, ha chiesto una giornalista americana in conferenza stampa. Né Obama né Renzi le hanno saputo rispondere.

Sulla Russia il dissenso è emerso senza finzioni. Il presidente americano non solo ha ricordato la divergenza di vedute su Putin e sul ruolo che sta svolgendo il nuovo zar, ma ha messo in guardia italiani ed europei: al di là degli interessi economici ci sono “i valori e i principi, anche quando bisogna pagarne un prezzo”, gli stessi valori e principi che “hanno reso prospera e sicura l’Europa” dopo la seconda guerra mondiale. Parla a nome dei liberatori mentre ricorrono i 70 anni della vittoria contro il nazi-fascismo, cioè contro la Germania e l’Italia che oggi fanno tanto le amiche della Russia. Nessuno lo ha detto, per carità, ma molti a Washington lo hanno pensato.

E veniamo all’economia. Grande sintonia in astratto: l’austerità non basta, ci vuole la crescita, il miglior modo per ridurre il deficit è risanare i conti pubblici, proprio come dimostrano gli Stati Uniti dove il disavanzo federale è sceso dall’11 al 3% del pil. Per stimolare la crescita occorre flessibilità e anche su questo Obama e Renzi vanno d’amore e d’accordo. Gli Stati Uniti si sono già spesi con la Germania per impedire che l’Italia venisse messa con le spalle al muro. Adesso, deve risollevarsi da sola, facendo le riforme. Ha cominciato, bene così, vada fino in fondo.

Lo stesso vale per la Grecia che torna ad allarmare i mercati e i governi occidentali. Anche in questo caso, Obama ha fatto molto negli anni scorsi affinché Atene restasse nell’euro. Ora i greci debbono contare sulle proprie forze, debbono pagare le tasse, ridurre la burocrazia, rendere flessibile il mercato del lavoro per aumentare l’occupazione, in particolare quella dei giovani. Obama ha snocciolato davanti ai giornalisti una vera e propria agenda di politica economica identica come una goccia d’acqua a quella dell’Unione europea, della Bce e del Fondo monetario (la famigerata trojka).

Il presidente ha anche ricordato che nell’incontro con Tsipras nel febbraio scorso non si è mai parlato di prestiti americani. E lo ha detto senza celare un tono indispettito. Non sarà Washington a salvare Atene da se stessa. Il fatto è che il viaggio a Mosca con tanto di bacio della pantofola putiniana è stato per gli americani uno schiaffo in faccia e non sono disposti a porgere l’altra guancia. Putin non è in grado di sborsare i rubli che non ha, quindi Tsipras è tornato con le pive nel sacco, ma in compenso ha commesso uno sgarbo che pagherà caro. Un vero pivello. Dalle parole ruvide di Obama e dal dibattito al Fondo monetario si trae l’impressone che a questo punto non ci sono più margini o la Grecia si piega o fallisce. Costi quel che costi, anche se costerà. Il discorso sui valori e sui principi vale anche per lei.

Renzi, dunque, ha trovato un Obama che nel suo ultimo anno di presidenza non ha nessuna intenzione di fare il buonista: Barack “does not care”, si potrebbe dire parafrasando lo slogan “I care” così amato da Veltroni. Tanta acqua è passata sotto i ponti, il presidente sta per diventare un’anatra zoppa, pensa a tutelare il proprio Paese, a non aprire immense praterie ai repubblicani, a non essere ricordato come quello che ha disperso un patrimonio accumulato rispondendo bene alla crisi e che spreca dollari in giro per il mondo. Dopo essere uscito malamente dall’Iraq, non vuole commettere lo stesso errore in Afghanistan, quindi ha chiesto a Renzi che gli italiani rimangano qualche mese in più (vedremo quanti mesi).

Per il resto, l’America agli americani, l’Italia agli italiani. Sempre grandi amici e alleati strategici, ma a ciascuno il suo. Renzi, che è un giovane sveglio, non può non averlo capito.

Stefano Cingolani

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