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Anche l’Italia, dopo la Gran Bretagna, decide di entrare – come membro fondatore – nell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), l’istituto finanziario promosso dalla Cina che si pone come rivale della Banca Mondiale e dell’Asian Development Bank. Anche Germania e Francia, insieme al nostro paese, riporta il Financial Times, faranno parte della banca voluta da Pechino per attrarre investimenti in infrastrutture chiave di tutta l’Asia, dai trasporti all’energia alle telecomunicazioni.

Washington si è adoperata in ogni modo per evitare che le nazioni occidentali entrassero nell’AIIB: non appena la Cina ha avviato il progetto, nel 2013, gli Usa – ricorda FT – hanno cominciato a lavorare per convincere gli alleati a boicottare la nuova istituzione, sostenendo che la banca sponsorizzata da Pechino avrebbe adottato standard per l’erogazione degli investimenti meno scrupolosi rispetto alla Banca Mondiale su temi come sostenibilità ambientale e trasparenza dei governi.

LE ADESIONI EUROPEE

La decisione di Italia, Germania e Francia arriva dopo che la scorsa settimana Londra aveva annunciato l’ingresso nell’AIIB, suscitando dure reazioni a Washington. “Questa è una scelta del governo sovrano britannico. Speriamo, anzi ci aspettiamo, che la Gran Bretagna faccia valere il suo peso per ottenere l’adozione di standard elevati”, ha commentato la Casa Bianca. L’amministrazione Obama ha anche fatto capire che Londra si sta mostrando troppo morbida verso i cinesi, pronta a chiudere un occhio su questioni politiche o umanitarie a favore degli interessi economici. Londra si è mossa rapidamente per entrare nell’AIIB, nella speranza di imporsi come destinazione numero uno per gli investimenti cinesi.

Il presidente del parlamento Ue Martin Schulz si è detto soddisfatto per l’ingresso di quattro paesi europei nell’AIIB, ma ha sottolineato che la banca dovrà conformarsi agli standard internazionali. Secondo l’agenzia di stampa di Stato cinese Xinhua, in Europa anche Svizzera e Lussemburgo stanno valutando l’ingresso nell’AIIB (il ministero degli Esteri cinese non ha però confermato).

La Cina aveva fatto sapere a inizio anno che un totale di 26 nazioni (quasi tutte dell’Asia e del Medio Oriente) sono già nell’AIIB come membri fondatori. Il termine ultimo per fare l’ingresso nell’AIIB come fondatori è il 31 marzo. Gli articoli dell’accordo tra le parti devono essere ancora finalizzati, probabilmente entro la fine del 2015, altro elemento di incertezza molto criticato dagli Stati Uniti. L’AIIB avrà a disposizione un budget di 50 miliardi di dollari.

LA CARTA DELLA CINA

In Asia-Pacifico sono ancora fuori dall’AIIB Giappone, Corea del Sud e Australia, alleato chiave degli Stati Uniti nella regione su cui Washington ha esercitato forti pressioni perché si tenga fuori dall’AIIB. Tuttavia ora a Canberra il premier Tony Abbott ha fatto sapere che riconsidererà la sua posizione; così potrebbe fare anche Seul. Il Giappone, invece, che insieme agli Usa è il maggior “azionista” dell’Asian Development Bank (e un giapponese, per convenzione, è alla guida della banca), probabilmente non entrerà mai nell’AIIB; tuttavia il direttore dell’Asian Development Bank, Takehiko Nakao, ha dichiarato al Nikkei Asian Review: “Ci siamo incontrati e abbiamo iniziato a condividere esperienze e know-how; una volta che l’AIIB sarà effettivamente stablita è immaginabile una cooperazione”.

La Cina è riuscita a convincere le nazioni asiatiche e i paesi europei che la sua ascesa non è una minaccia ma un’opportunità di cui tutti possono beneficiare e che sarebbe sciocco lasciarsi sfuggire. La carta giocata da Pechino, quella del potere economico, si è dimostrata più forte di quella usata dagli americani del potere militare e della sicurezza internazionale. E’ facile capire perché: per fare un esempio, la Corea del Sud conta sulla potenza americana per proteggersi dal suo temibile vicino, la Corea del Nord, e chissà, forse anche dalla Cina; ma proprio la Cina assorbe più di un quarto delle esportazioni di Seul, contro il 12% che va in America.

LA DEBACLE DIPLOMATICA AMERICANA

La decisione dei Paesi Ue rappresenta una sconfitta per gli sforzi Usa tesi a compattare le nazioni occidentali, secondo il quotidiano di Londra. “Un duro colpo per l’amministrazione Obama, secondo la quale i paesi occidentali avrebbero avuto una maggiore influenza sulle iniziative della nuova banca se tutti insieme ne fossero rimasti fuori e avessero spinto per alzare gli standard del prestito”, scrive il Ft. “L’AIIB, formalmente lanciata dal presidente cinese Xi Jinping l’anno scorso, è uno degli elementi di una più ampia offensiva di Pechino per creare nuove istituzioni economiche e finanziarie che ne accresceranno l’influenza internazionale”. Ora rappresenta un elemento centrale nelle dispute tra Cina e Usa su chi definirà le regole commerciali ed economiche in Asia nei prossimi decenni. La banca è anche vista come un propulsore per la diffusione del potere cinese nella regione, alle spese degli Stati Uniti.

“La storia dell’Asian Infrastructure Investment Bank si sta trasformando in una debacle diplomatica per gli Usa. Avendo scatenato e perso il braccio di ferro con la Cina, Washington ha inviato suo malgrado un segnale su come si sta spostando la leva del potere nel 21mo secolo”, secondo il Ft.

“La nostra posizione sull’AIIB resta chiara: gli Stati Uniti e le maggiori economie globali sono d’accordo sul fatto che c’è un forte bisogno di accrescere gli investimenti in infrastrutture nel mondo”, ha commentato il consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca. “Ma riteniamo che qualunque nuova istituzione multilaterale debba incorporare gli alti standard della Banca mondiale e delle banche di sviluppo regionali”. In base agli incontri avuti con la Cina, prosegue la nota della Casa Bianca, “temiamo che l’AIIB non riesca a rispondere a questi alti standard, in particolare per quel che riguarda governance, sostenibilità ambientale e protezione sociale”.

GLI SVILUPPI

L’ingresso di tanti paesi occidentali di peso nell’AIIB non farà che accrescere gli incentivi di Usa e Giappone a concludere i negoziati sulla Trans-Pacific Partnership, accordo commerciale che mette insieme 12 nazioni del Pacifico e che, significativamente, non include la Cina. Gli americani sostengono anche in questo caso che lo scopo non è quello di costruire un blocco anti-cinese ma di mantenere determinati standard di apertura economica. Purtroppo per Washington, i suoi alleati cominciano a dubitare di queste prese di posizione e a pensare che un accordo senza la Cina, potenza commerciale numero uno in Asia-Pacifico, sia davvero un controsenso.

OBOR, cina venezie

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