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Intorno alle 4:30 ora italiana, uomini armati del gruppo islamico combattente Shabaab hanno attaccato l’università di Garissa, nel nord est del Kenya, e hanno ucciso quindici persone. Il campus universitario è stato circondato dalle forze di polizia, mentre i cinque (ma il numero è da definire) terroristi si trovano ancora all’interno di un edificio. Avrebbero in mano diversi ostaggi ─ anche in questo caso, i numeri sono molto discordanti, e come insegna l’esperienza del Westgate (l’attentato al mall di Nairobi del 2013), le notizie che arrivano dalle fonti locali non sono molto affidabili.

Mary Harper della BBC ha contattato alcuni membri di Shabaab che le hanno fornito informazioni sull’attacco. Secondo quanto scritto su Twitter dalla giornalista britannica, gli assalitori avrebbero separato i credenti musulmani dagli altri: una prassi già nota, usata per esempio dagli Shabaab nel corso dell’attacco alla cava di Mandera, una cittadina al confine tra Keyna e Somalia, avvenuto all’inizio del dicembre scorso.

Il ministero dell’Interno keniota ha diffuso l’identikit di quello che si crede sia il “mastermind” dietro all’attacco odierno: si tratta di Mohammed Kuno, latitante da dicembre 2014, accusato di essere l’ideatore dell’attentato a Mandera (decine di minatori “non credenti” furono uccisi a sangue freddo). Kuno è un ex preside di una madrassa (le scuole teologiche musulmane) di Garissa; ruolo che ha abbandonato per unirsi all’Unione delle Corti Islamiche in Somalia (UCI) ─ un’entità critarchica che raggruppava varie realtà islamiste minori a Mogadiscio e che per un breve periodo aveva provato a prendere il controllo cittadino, defunta definitivamente nel dicembre 2006 con l’azione militare congiunta dell’esercito locale e quello etiope, con l’appoggio statunitense.

Dopo lo scioglimento delle UCI, Kuno è entrato tra i ranghi di al Shabaab, dove è diventato una figura prominente. È conosciuto con tre alias: Sheikh Mahamad, Dulyadin e Gamadheere. Ora su di lui c’è una taglia da oltre 200 mila dollari.

Al Shabaab (“la gioventù”) è una realtà importante del jihad globale. Nonostante l’eliminazione di alcuni leader ─ tra cui il capo Moktar Ali Zubeyr, noto come “Godane”, avvenuta il settembre scorso per un drone-strike statunitense, o quella dei capi della sicurezza Talhil Abishakur e Yusef Dheeqm, e della mente operativa Adan Garaar ─ la milizia non si è contratta. La sua base operativa è la Somalia, dove mantiene una certa presa sull’area meridionale del Paese. Gli sconfinamenti in Kenya (come quelli sopra citati al centro commerciale di Nairobi e quello a Mandera), non sono rari, e sono conseguenza delle attività militari che il governo di Nairobi sta da tempo portando avanti contro il gruppo. Sugli Shabaab pesa anche l’azione di counter-terrorism americana: una strategia del tutto simile a quella (fallimentare) messa in atto in Yemen: attacchi con i droni e azioni mirate di forze speciali.

Il nuovo emiro del gruppo, Ahmad Umar, nominato dopo la morte di Godane, ha avuto diversi problemi nel gestire le divisioni interne (con fazioni che si sono messe in competizione armata). Come fa notare Guido Olimpio sul CorSera, «scissioni e contrasti duri, ma che hanno avuto ripercussioni parziali sulla pericolosità del movimento».

Ci sono segnali secondo cui il dilemma ideologico del jihad globale, sembra stia colpendo anche Shabaab: la realtà somala ha da sempre avuto legami con al Qaeda, ma sembra che ci siano diversi sottogruppi interni in smottamento verso le istanze del Califfo.

@danemblog

 

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