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Perché esiste il Fiscal Compact? Perché esiste questa macchina infernale senza pause, che obbliga lo Stato a dimagrire, senza se e senza ma, con pochissima attenzione da parte del decisore Europa a se questa consunzione sia all’interno di un processo di sana spending review o invece di recessivi tagli lineari, di cessione per mere esigenze di cassa di controllo pubblico o di intelligenti e mirate liberalizzazioni?

Sono due le risposte immediate a questa domanda, che sollevano ulteriori questioni, più dirimenti, sulla natura del progetto europeo e sulla necessità di una nuova visione politica che sostenga il cambiamento nelle scelte pubbliche del Vecchio Continente.

La prima risposta ha a che fare con quella che io chiamo la “questione ideologica”. La mia generazione di cinquantenni, oggi al potere in tutti i gangli delle amministrazioni nazionali e sovranazionali, si è formata nelle università al tempo in cui il verbo neo-classico aveva preso il sopravvento. Partito in sordina alla fine degli anni sessanta presso la scuola di Chicago, fu sospinto dai fallimenti evidenti negli anni settanta del modello keynesiano, applicato dalla classe dirigente di allora senza interrogarsi se l’intervento statale che John Maynard Keynes perorava durante la Grande Depressione da crisi di domanda degli anni trenta fosse necessario in economie alle prese invece con problemi strutturali di offerta che cominciavano ad affliggere il benestante Occidente.

Margaret Thatcher e Ronald Reagan si fecero forti di quel modello (contano le idee, eccome se contano!) per adottarlo con convinzione e poca attenzione ai dettagli, generando prima disoccupazione e poi ripresa, modificando per sempre la struttura produttiva e finanziaria di Gran Bretagna e Stati Uniti. Ma anche, per quello che conta di più per noi, dando vita – più o meno volontariamente – ad una nuova ideologia che, come spesso accade, pervase i corridoi delle migliori università del mondo: il fallimento del pubblico (meno interventismo) e il liberismo (più mercato), divennero i due pilastri del messaggio economico con il quale siamo stati cresciuti sui banchi degli atenei negli anni novanta.

Oggi, come è avvenuto spesso nel corso della storia, il pendolo ritorna indietro, e una crisi da domanda simile a quella degli anni trenta richiede soluzioni simili a quelle persuasivamente argomentate da Keynes allora. Ma questa classe dirigente al potere oggi non riesce ad accettarle, troppo imbevuta di quello che allora era sapere ed oggi è mera ideologia.

La questione ideologica in Europa avrebbe comunque le gambe corte se ad essa non si accompagnasse una questione europea di superiore importanza: quella democratica. Il potere decisionale in quest’ultimo decennio è rapidamente salito verso il centro, verso Bruxelles, senza che appropriati meccanismi di rappresentanza effettiva consentissero di sensibilizzare la politica sulla situazione di disagio e – talvolta – di vera sofferenza dei cittadini, specie quelli colpiti dalla recessione. In fondo, meccanismi oliati di rappresentanza avrebbero consentito facilmente alla politica di ordinare alla burocrazia di abbandonare rapidamente la sua dannosa ideologia. Così non è stato, così non è, a meno di un crescente e conseguenziale consenso per nazionalismi di sinistra e di destra per ora sterili – incapaci cioè di influenzare le politiche economiche – ma certamente più attenti alle sofferenze dei singoli territori, delle località.

E’ un’Europa, quella che abbiamo costruito, dal “liberismo standardizzato”, che chiede cioè, senza se e senza ma, meno presenza del pubblico e più mercato nell’economia e riforme uguali per tutti, confermando la sua lontananza dalla specificità dei problemi che ogni Paese, e spesso ogni regione, vorrebbero affrontare e risolvere. Questa è l’Europa che si sta lacerando e dividendo sempre più, basti vedere la crescita galoppante degli anti euro in Germania.

Che Europa contrapporre a questa fallimentare per sperare che il disegno europeo possa sopravvivere, permettendo al Continente di crescere unito e dunque capace finalmente di affrontare con efficacia e determinazione le più spinose questioni geopolitiche di questo difficilissimo scenario mondiale, ragione per cui in fondo era nata l’idea di Unione? Al “liberismo standardizzato” dovremmo sostituire un “liberalismo democratico”: dove la questione centrale di quest’ultimo sarebbe quella del pieno conseguimento delle libertà individuali, senza le catene che derivano dalla sofferenza, dalla disoccupazione, dal fallimento che questa recessione in primis genera; dove le riforme sono quelle, diverse per ogni Paese, più utili alla causa della libertà d’impresa e del diritto-dovere di lavorare, nel pieno riconoscimento della diversità come valore fondante dell’Unione europea (come argomentava Jean Monnet); dove la Politica rappresenta con coraggio le volontà dei cittadini-elettori di ogni singolo Paese e vede le proprie richieste destinatarie di pari dignità al tavolo delle decisioni europee.

Non mi stupirei se molti di voi riconoscessero nell’attuale tentativo greco l’azzardo coraggioso di risvegliare il Continente europeo e portarlo appunto verso una nuova Europa, più democratica e più liberale e – dunque – più solidale, dove ci sentiremmo maggiormente a casa (peggio di così, scontentando tutti, è difficile fare).

Non a caso la battaglia si combatte oggi in Europa sul fronte della “quantità di solidarietà” per chi soffre in Grecia e sulla lista di riforme che la Grecia dovrà adottare. Non una lista “pre-stampata” ma elaborata sulla base di richieste dal basso di un popolo che vuole fortemente rimanere in Europa e migliorarsi, ma decidendo insieme agli altri Stati membri la strada da percorrere, senza imposizioni.

Come finirà lo diranno gli storici. Come potrebbe finire lo possiamo decidere noi, esercitando coraggio e saggezza, rimuovendo il Fiscal Compact e ascoltando finalmente gli europei.

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