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Vi è dunque una ripresa, consentita dal mutamento delle politiche economiche. E’ un bene. Sarà, però, una fase ancora contrassegnata dalla debolezza della domanda aggregata. Quando si parla di rischi di stagnazione prolungata non si intende tanto crescita zero, quanto un’evoluzione positiva, ma che si caratterizza per la persistente inadeguatezza della spesa degli operatori, siano essi consumatori o imprese, rispetto alle potenzialità di produzione dell’economia. In queste condizioni, quella che abbiamo chiamato la “classe 2007” rischia di immettersi su un “sentiero di vita” contrassegnato da prolungata bassa crescita e dalla conseguente impossibilità ritornare ai livelli di benessere che erano impliciti nei trend pre-crisi, quelli di cui hanno goduto i loro genitori fino a che li hanno messi al mondo.

Quest’ultimi hanno avuto, fino al 2007, standard di vita che sono evoluti in linea con quelli delle altre grandi economie europee. Si è parlato a lungo di declino relativo dell’Italia prima della crisi; un fenomeno che si sarebbe concretizzato soprattutto a partire dalla metà degli anni ’90 dello scorso secolo. In effetti, i dati delle (riviste) contabilità nazionali non sembrano mostrare in modo chiaro una simile tendenza. Nei confronti della Germania, il Pil pro-capite ha effettivamente preso a scendere nel 2004-2005, quando maturano i successi da guadagno di competitività conseguiti grazie all’euro dall’economia tedesca; la caduta si fa poi precipitosa a seguito della duplice recessione italiana. Nei confronti della Francia il declino, dalla metà degli anni ’90, riflette essenzialmente il più veloce invecchiamento relativo della popolazione italiana. Escludendo questo effetto, il reddito pro capite calcolato sulla popolazione in età di lavoro dell’Italia (una misura della produttività delle persone potenzialmente occupabili) tiene sostanzialmente il passo, dal ’95, con quello francese, prima di crollare con l’avvento della crisi. Il “vero” declino italiano si manifesta, dunque, dopo il 2007; è questo che bisogna, oggi, primariamente curare.

C’è, dunque, ancora necessità di un’azione di politica economica volta a rivitalizzare una crescita che è stata annichilita degli eventi successivi al 2007. Ovviamente questo non può essere il compito che può svolgere una sola nazione, tanto più se essa è parte di una unione monetaria e ha vincoli insormontabili da alto debito pubblico. Occorre un impegno europeo, perché una unione non può accettare una situazione quale quella descritta nelle figure 2-4, tanto più se quelle evoluzioni sono anche il frutto di scelte mal-concepite di politica economica perseguite in risposta alla crisi dell’euro. Si è detto che la recente ripresa deriva in effetti dal cambiamento di impostazione delle politiche macro nell’area euro. Ma, come molte volte si è costatato per i passi di volta in volta intrapresi nel corso della crisi europea, anche per questa azione si corre il rischio di ripetere il motto: too late, too little. Il “troppo tardi” potrebbe valere soprattutto per la politica

monetaria che, a causa dell’opposizione tedesca, arriva al Qe con notevole ritardo. Non è detto che l’immissione di liquidità riesca a fare ripartire le aspettative di inflazione nella misura necessaria ad ancorarle nuovamente all’obiettivo del 2%, condizione essenziale per ridare potere di trazione alla politica monetaria. Ancor più se si tiene presente che l’inalterata opzione anti-inflazionistica della Germania può inficiare un simile sforzo. E’, a questo proposito, da notare che le aspettative di inflazione, misurate sui rendimenti degli strumenti finanziari, hanno preso a ripiegare nell’ultimo mese, dopo il rialzo susseguente all’annuncio e, poi, all’avvio del Qe. Il “troppo poco” si riferisce alla politica fiscale. La politica monetaria non convenzionale ha bisogno di essere affiancata dalla politica fiscale per essere efficace. Tuttavia, la flessibilità consentita dalla Commissione alle economie sotto osservazione si muove entro stretti limiti, mentre i paesi che avrebbero spazio fiscale per condurre l’affiancamento alla Bce sono restii ad adottare azioni di stimolo, anche quando sembrerebbero nel loro concreto interesse nazionale (come è il caso degli investimenti pubblici in infrastrutture in Germania, finanziabili con tassi di interesse mai così bassi).

Non si è, dunque, fatto ancora abbastanza sul lato del sostegno della spesa, ci sono ancora spazi da conquistare e resistenze da vincere in Europa per una politica di contrasto delle tendenze alla stagnazione. E’ in questo quadro che si devono inserire le azioni strutturali sul fronte dell’offerta. Esse devono aiutare a correggere il gap di domanda. Vanno in questo senso tutte le misure volte ad abbattere l’incertezza sul futuro che riduce la voglia di spendere degli operatori privati e quelle dirette a rimuovere gli ostacoli (istituzionali, regolatori, legali) che abbassano la propensione all’investimento. Le politiche di riforma strutturale sono dunque anch’esse fondamentali in questa fase, come strumento che può contribuire a curare, non ad aggravare, la debolezza della domanda aggregata.

I nodi della ripresa sono – oggi come un anno e mezzo fa  –  ancora in gran parte lì.

Cosa può fare la politica contro il declino

Vi è dunque una ripresa, consentita dal mutamento delle politiche economiche. E’ un bene. Sarà, però, una fase ancora contrassegnata dalla debolezza della domanda aggregata. Quando si parla di rischi di stagnazione prolungata non si intende tanto crescita zero, quanto un’evoluzione positiva, ma che si caratterizza per la persistente inadeguatezza della spesa degli operatori, siano essi consumatori o imprese, rispetto…

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