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Nel primo anniversario della nascita del governo di Matteo Renzi non si sa, francamente, se la parte più importante del suo bilancio riguardi le riforme realizzate, come quella del mercato del lavoro, o solo avviate, come quelle della Costituzione e della legge elettorale, e non invece i guasti che il giovane presidente del Consiglio è riuscito a procurare sul piano politico ai suoi avversari, interni ed esterni al partito di cui è segretario. Guasti che ne hanno indubbiamente rafforzato posizioni e prospettive, ben al di là del terreno sul quale si è soliti abituati a misurare i risultati di un governo in un periodo di crisi economica, finanziaria e sociale come quello che il Paese vive dal momento in cui, poco più di tre anni fa, si avvicendarono a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi e Mario Monti: il terreno dei risultati dell’azione antirecessiva.

Di Monti, avventuratosi sulla strada dell’impegno politico nelle elezioni del 2013 allo scopo dichiarato di proteggere e consolidare gli effetti della sua politica di presunto o reale risanamento, si sono perse letteralmente le tracce. Gli è rimasta soltanto la soddisfazione di vantarsi, di tanto in tanto, di avere impedito che quelle elezioni venissero vinte da un Pd troppo massimalista guidato da Pier Luigi Bersani e da un Pdl troppo “populista” e “antieuropeo” guidato da Berlusconi. Una soddisfazione che non è bastata a Monti nemmeno per tenere unito e fare sopravvivere davvero il partito da lui improvvisato con il nome di Scelta Civica.

Di Pier Luigi Bersani e di tutte le componenti più o meno massimalistiche del Pd, di provenienza comunista o democristiana, sono rimaste solo le voci o le sempre più deboli minacce di dissenso da quando Renzi li ha letteralmente asfaltati nelle primarie e nel congresso seguite alla loro mancata vittoria elettorale. Un’altra colata di asfalto potrebbe scendere su questa parte del Pd, e sulle forze collaterali, a cominciare dalla Cgil, se la situazione politica dovesse precipitare e Renzi riuscisse a strappare al nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella ciò che il predecessore Giorgio Napolitano non gli avrebbe concesso: lo scioglimento anticipato delle Camere e le conseguenti elezioni. Il presidente del Consiglio si farebbe praticamente da solo le liste bloccate del suo partito e completerebbe la rottamazione dei malpancisti, gufi, rosiconi o com’altro li chiama.

Di Berlusconi e della sua ricostituita Forza Italia, dopo la separazione da Angelino Alfano ai tempi del governo delle larghe intese realizzato da Enrico Letta proprio dopo le elezioni del 2013, è rimasto quel che si vede e si sente ogni giorno: un buio fitto, con la minuscola dell’aggettivo e la maiuscola del “ribelle” pugliese Raffaele Fitto. Un ribelle, peraltro, al quale rubano spesso la scena, sotto tutti i punti di vista, anche quelli che per le loro funzioni istituzionali dovrebbero essere le guardie a difesa della leadership berlusconiana del partito: i presidenti dei gruppi parlamentari, Paolo Romani al Senato e Renato Brunetta alla Camera.

Di Matteo Salvini, il segretario della Lega in crescita costante nei sondaggi a spese soprattutto di Berlusconi, il presidente del Consiglio ha forse una foto in qualche angolo di casa. Salvini è ormai l’ostacolo sempre più insormontabile sulla strada della ricostituzione di un centrodestra competitivo.

Un’altra foto in qualche angolo di casa, o d’ufficio, di Renzi se la merita Beppe Grillo. Che non riesce a separarsi dalla sua dimensione e fama di comico – bravissimo, per carità – e produce pertanto al suo movimento di protesta e di opposizione quella crisi già tradottasi in un misto di espulsioni e di esodi volontari. Il protagonismo che i grillini pensano di guadagnarsi nelle aule parlamentari, da soli o in concorrenza con vecchie e nuove opposizioni, è ormai funzionale solo al diritto rivendicato da Renzi di fronte agli elettori di forzare anche tempi e regolamenti delle Camere per portare avanti il suo programma. Che, per quanto pasticciato possa essere o apparire, è pur sempre più concreto e preferibile alle velleità dei pentastellati.

Perché Renzi gongola dopo un anno a Palazzo Chigi

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