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L’Occidente adotta una strategia di contenimento indiretto del Califfato, ma questo si sta espandendo configurandosi come focolaio di destabilizzazione globale e motivo per un cambiamento urgente dell’azione occidentale. La scelta di Obama di non ingaggiare più l’America direttamente nel mondo, e l’impossibilità degli alleati di agire senza l’America stessa, ha reso difficile trovare qualcuno che combattesse il Califfato in prima linea.

Il nuovo Iraq, finora, non ne ha avuto le capacità. La Turchia – che in tre giorni potrebbe eliminare i califfisti siroiracheni – ha interesse a restare in posizione di attesa. I sauditi hanno interesse a mantenere un’entità sunnita nell’area siroirachena che contrasti l’espansione sciita e, pur contro il Califfato sfuggito al loro controllo, non vogliono sia distrutto, in particolare ora che l’Iran ha mandato le sue truppe a sostegno dell’esercito iracheno.

In questa situazione è stato razionale per l’Occidente lasciare che il Califfato si consolidasse, solo limitandone l’espansione, affinché: a) la violenza totale califfista costringesse i locali ad ingaggiarsi, cosa successa con i Curdi, con la reticente Giordania, ecc.; b) il Califfo chiamasse il più possibile jihadisti dal resto del mondo permettendo, per la concentrazione in un territorio, di meglio identificarli e/o ucciderli, rendendo anche più produttiva la guerra aerea; c) fosse minimo il profilo occidentale nel vero conflitto che è il motivo della nascita del Califfato, cioè la guerra per procura tra Iran sciita e Arabia Saudita sunnita. Ma questa strategia ha lasciato spazio all’affermazione simbolica del Califfato, inducendo i gruppi jihadisti ed i giovani in cerca di eccitazione di tutto il mondo islamico-sunnita a dichiararsi parte del Califfato stesso: un tipo di vittoria che Al Qaeda non ottenne proprio perché non riuscì a dare un luogo al suo progetto panislamista. Il nuovo Califfato, invece, ci è riuscito, moltiplicando i suoi luoghi nell’Africa settentrionale e sub-sahariana, nel Medio Oriente, nell’Asia centrale, ecc.

Da un lato, alcuni focolai stanno trovando pompieri locali: per esempio, Boko Haram, finora solo svogliatamente contenuto dalla Nigeria, ora è attaccato, con efficacia, da una coalizione di Stati africani. L’Egitto sta reagendo in Libia. Dall’altro, si osserva che tutti questi attori locali non hanno incisività sufficiente. In particolare, non è probabile una sconfitta simbolica che faccia cessare le auto-adesioni al Califfato. Con una complicazione: al Qaeda attaccò l’Occidente solo per dissuaderlo ad intervenire nelle questioni islamiche, ma il Califfato potrebbe avere l’interesse ad attaccarlo spettacolarmente per prendere l’immagine di Islam vincente, e puntare alla conquista della Mecca, allo scopo di incentivare gli autoreclutamenti di islamici europei e nel mondo.

Da qui il rischio crescente sul piano della sicurezza, rapidamente convertibile in uno di destabilizzazione economica globale, che impone un cambio di strategia, non necessariamente abbandonando quella precedente, ma integrandola con una finalizzata a sconfiggere la profezia di vittoria del Califfato. I governi occidentali sono scoordinati e ciò rende illusori ingaggi diretti. C’è, poi, il requisito di star fuori dal conflitto tra Iran sciita e Arabia sunnita perché l’unico modo per attenuarlo è che i due si picchino con danni reciproci e dopo trovino una tregua che sarà possibile aiutare solo da chi è rimasto neutrale prima. Per questo nell’area siriana-irachena l’Occidente dovrebbe continuare il contenimento indiretto.

Altra logica è applicabile all’Africa perché lì non ci sono sciiti. Quindi i Sauditi, che condizionano l’Egitto, avranno meno problemi a distruggere i focolai del Califfato sunnita. Qui il supporto occidentale, pur indiretto, ai locali dovrà essere più incisivo in termini di sostegno aereo e di truppe speciali, iniziando dalla Libia. La bonifica dell’Africa sarà sufficiente per smontare la profezia del Califfato e ridurne il rischio sistemico, pur non azzerandolo. Per esempio, il Califfato, se sconfitto in Africa si concentrerà sul Caucaso e Asia centrale dove il presidio russo è indebolito dall’isolamento di Mosca, problema da risolvere.

In conclusione: sarà lunga, ma la sconfitta in Africa segnerà l’inizio della fine per il Califfato. Roma sta chiamando azione alleata per il caso libico, ma dovrebbe proporre questa, o simile, strategia più sistemica per ottenere l’attenzione che ora le è negata.

www.carlopelanda.com

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