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Una di queste sere, al solo scopo di farmi del male, ho rivisto in tvil film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti. La storia è breve da ricordare. Una ragazza siciliana, di nome Marta, si laurea a Roma col massimo dei voti discutendo una brillante tesi di filosofia. Il suo compagno è un matematico che in Italia è costretto a fare il dog sitter, mentre un’Università americana gli offre un contratto da 50mila dollari l’anno (primo messaggio: i nostri giovani sono costretti ad andare all’estero perché da noi trovano solo dei lavoretti precari).

Mentre alcuni suoi colleghi “filosofi” che si rassegnano alle logiche del sistema e si mettono a fare – ben remunerati – gli sceneggiatori del Grande Fratello o i cronisti di qualche discutibile pubblicazione, Marta finisce nel call center di una multinazionale (il referente è impersonato da Massimo Ghini) che vende una specie di robot tuttofare (in realtà si tratta di una classica sòla) nei lavori domestici.

Il personale è gestito da una singolare manager (interpretata da Sabrina Ferilli) che cerca di motivare le telefoniste con tecniche particolari sostanzialmente caserecce. Il lavoro è organizzato nel seguente modo: si fanno telefonate a persone segnalate dall’organizzazione (le segnalazioni sono il valore aggiunto dell’azienda), con l’obiettivo di ottenere un appuntamento. A quel punto entrano in scena i presentatori dell’apparecchio che ne spiegano il funzionamento e cercano di vendere il prodotto.

Alla fine del mese, in una specie di autodafé, viene premiata l’operatrice che ha ottenuto più appuntamenti (ad essa, dopo una serie di medagliette, viene rifilato lo stesso robot tuttofare che è posto in vendita ai clienti) e vengono licenziate quelle che hanno avuto i peggiori rendimenti. Lo stesso trattamento è riservato agli operatori a domicilio, i peggiori dei quali (con riferimento alle vendite) sono sottoposti ad una specie di gogna da parte degli stessi colleghi.

Per inciso, gli operatori che vanno nelle case della gente non esitano a rubare la pensione alle vecchie signore. Marta entra in contatto con un sindacalista (ovviamente del Nidil-Cgil), il quale non ci fa una gran figura, in quanto riesce solamente a mettere in scena uno spettacolo parodistico sui call center a cui partecipa tutto l’establishment culturale romano che pronuncia la parola <precariato> ogni tre, pur riscuotendo ben “tre paghe per il lesso”.

La sola eroina positiva è la madre di Marta, insegnante di greco e latino (la sinistra ha riscoperto gli studi classici), malata di cancro, lettrice dell’Unità e fumatrice di spinelli.

Ci fermiamo a questo punto senza raccontare la tragica fine del film, il cui messaggio è chiaro: questo è il lavoro che si può trovare in Italia. Il fatto è che adesso non è più così: quel lavoro – che anni or sono era ritenuto il peggiore  – in gran parte ‘’è scappato’’ all’estero.

I critici di allora si sono messi a difendere quello rimasto.

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‘’Primarie’’ del Pd in Campania. Ma Roberto Saviano è convinto di essere San Pietro e di custodire le chiavi del Regno dei Cieli?

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