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Non sono sospetto di nostalgie per il vecchio Pci né, tantomeno, per il sindacato che fu. Cinghia di trasmissione di partiti e di ideologie che hanno zavorrato il Paese per 40 anni.

Ma secondo me qualcosa di buono c’era nei vecchi sindacati, nel Partito comunista che fu e persino – soprattutto verrebbe da dire –  nella Fiom, prima che cedesse alle tentazioni movimentiste. Dentro il buono, dopo i disordini del primo maggio contro l’Expo, ci metto i vecchi servizi d’ordine.

Altra premessa doverosa. Chi scrive, da ragazzo era (da un certo punto di vista ancora è, ma questa è un’altra storia) un anarchico. Con tanto di bandiera nera ed estetica che ricorda molto quella degli attuali black block o come si chiamano. E con lo stesso carico di contraddizioni che comporta essere contro il sistema che ti permette vari lussi, compreso quello di farti un’idea radicale sul sistema stesso.

Grande differenza tra gli anti sistema di un tempo e quelli di oggi, il fatto che negli anni Ottanta a nessuno sarebbe saltato in testa di sfasciare negozi, bruciare automobili di gente che lavora, sfidare le forze dell’ordine.

I motivi sono tanti. Primo: eravamo usciti dallo schifo degli anni Settanta e nessuno aveva nostalgia del piombo. Secondo: eravamo pochi, non era per nulla fashion sfasciare le vetrine. Se lo facevi rischiavi l’astinenza affettiva e sessuale a vita. Non c’erano Fedez o Dj Ax, amplificati dalle multinazionali del divertimento, a difendere gli antagonisti.

Il terzo motivo è che c’erano i servizi d’ordine di chi organizzava le manifestazioni. Quello dei sindacati soprattutto. Descrivo un po’ di situazioni vissute. Cortei contro i governi di turno, con i “rivoluzionari” in coda. Sciarpe vietate. Non i caschi o le maschere anti gas. Le sciarpe di lana a quadrettoni della Standa. Al minimo tentativo di coprirsi mezza faccia (magari per il freddo) arrivava un iscritto ai confederali – Cgil, Cisl e Uil – che ti avvertiva: “Così non fai il corteo, mettiti dietro il tuo striscione a viso scoperto e non muoverti da lì”.

Altra situazione, il capo rivoluzionario, nostalgico del decennio precedente, tentava di organizzare un po’ di animazione ai margini del corteo (niente di devastante, un fumogeno, slogan più forti, musica) due nerboruti organizzatori pendevano sotto braccio il Bakunin in sedicesima, lo sollevavano di peso trascinandolo fino al bar e gli offrivano un caffè (sul serio) spiegandogli le regole della protesta perché loro erano i padroni di casa. Le forze dell’ordine restavano a guardare un po’ annoiate. La libertà di protesta era garantita a tutti, così come le automobili pagate a rate e i cassonetti finanziati dai contribuenti.

Questo per dire, non che i casseur sono dei figli di papà senza idee, viziati da media e da artisti improbabili. Come i loro nonni del 77. Questo è scontato. Ma per dire alla maggioranza pacifica dei no Expo (No Tav, No Mose), ai movimenti del May Day,  a quelli che si lamentano perché pochi cattivi rovinano la festa, che la responsabilità di quello che è successo se la devono prendere per intero.

Sta a chi organizza la protesta garantire per i partecipanti, magari con un servizio d’ordine. Se non ci sono le condizioni, se gli “infiltrati” sono troppi o troppo su di giri, si rinuncia al corteo. Si spiega ai militanti pacifici che devono tornare a casa e si lasciano i facinorosi al loro destino. Qualunque altra scelta è complicità con i teppisti. E di queste complicità non se ne sente proprio il bisogno.

La colpa dei disordini è dei No Expo pacifici

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