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Dopo un iter parlamentare durato mesi, il Senato ha finalmente approvato il disegno di legge sull’intelligenza artificiale (Ddl IA). La legge italiana è senza dubbio da lodare per il tempismo. Siamo infatti tra i primi al mondo a regolamentarne l’uso e la diffusione. Tuttavia, nel merito, qualche dubbio la nuova legge sembra sollevarlo. E allora, in classico stile Swot analysis, conviene guardare al contenuto sostanziale per farsi una idea.

Partiamo con i punti di forza.

Finalmente si centralizza la governance in materia di IA.

L’art. 16 contiene una delega al Governo a adottare uno o più decreti legislativi per definire una disciplina organica relativa all’utilizzo di dati, algoritmi e metodi di training.

L’art. 19 attribuisce alla struttura della Presidenza del Consiglio dei ministri, in materia di innovazione tecnologica e transizione digitale, il compito di predisporre e aggiornare la Strategia nazionale per l’intelligenza artificiale e di monitorarne la corretta esecuzione.

Lo stesso art. 19 istituisce un Comitato di coordinamento delle attività di indirizzo su Enti, organismi e fondazioni che operano nel campo della IA, presieduto dal Presidente del Consiglio di Ministri, con compiti di indirizzo e coordinamento.

L’art. 20 designa quali Autorità competenti in materia di IA l’AgID e soprattutto l’ACN, a quest’ultima attribuendo funzioni ispettive e sanzionatorie. Infine, l’art. 24 attribuisce piena delega al Governo per l’adeguamento della normativa nazionale al Regolamento IA.

In un Paese spesso appesantito da sovrapposizioni di competenze e funzioni a più livelli di governo, queste disposizioni rappresentano un passo decisivo per garantire coerenza e stabilità nelle politiche.

Non solo si centralizza la governance, ma si re-nazionalizzano le infrastrutture critiche.

L’art. 6 dispone al riguardo che i sistemi di IA destinati all’uso in ambito pubblico devono essere istallati su server ubicati nel territorio nazionale. Mentre l’art. 8 afferma che i trattamenti di dati eseguiti da enti e organismi di ricerca scientifica in ambito sanitario sono dichiarati di rilevante interesse pubblico.

Dopo anni di dipendenza dall’industria software e ICT statunitense, questi segnali di re-shoring sono al passo con la tendenza globale a rafforzare il controllo di asset e settori strategici.

Si guarda da vicino all’impiego della IA nel settore sanitario e nel pubblico. Tre articoli si occupano del binomio IA e sanità (artt. 7-8-10).

In particolare, si promuove l’uso dell’IA per migliorare il sistema sanitario, si rafforza il ruolo dei comitati etici e si istituisce una piattaforma di IA per il supporto alle finalità di cura.

Allo stesso tempo, l’art. 14 promuove l’uso della IA nella Pubblica Amministrazione allo scopo di aumentare l’efficienza dell’attività amministrativa e aumentare la qualità dei servizi al cittadino.

In Italia, dove è spesso il settore pubblico a fare da traino alle innovazioni, questa scelta potrebbe davvero accelerare l’adozione dell’IA — purché la macchina amministrativa sia pronta e il personale adeguatamente formato.

Veniamo ora alle debolezze ovvero ai punti che necessiterebbero di essere rivisti

Scarsi investimenti. Troppo pochi rispetto a quelli stanziati rispetto agli altri Paesi extraeuropei ed europei.

L’art. 23 e le dotazioni finanziarie ivi contenute hanno tutta l’aria di essere una goccia in un oceano di fondi che si è riversato – fuori dai confini nazionali – sulle startup di tutto il mondo.

Anche la centralizzazione del processo di stanziamento dei fondi in una unica Sgr (Invitalia) rischia di rappresentare un freno, più che uno stimolo/moltiplicatore all’efficiente investimento.

È vero che da qualcosa si doveva pure iniziare, ma forse la previsione di meccanismi di incentivo all’investimento privato (e strumenti di co-investimento pubblico-privato) sarebbe stata senza dubbio utile.

Molti i principi, poche le rules. È la critica che si può muovere non solo al DDL italiano, ma anche al Regolamento europeo sull’IA. Una conseguenza questa quasi inevitabile quando a scrivere le leggi e a discutere di politiche pubbliche sono soprattutto giuristi, politologi e filosofi, mentre ingegneri, imprese e innovatori stanno (soli) in prima linea. Nota per il lettore: non è un attacco alle scienze sociali — chi scrive è un avvocato, con un certo spirito di autocritica.

L’art. 3 afferma che l’IA per finalità generali deve avvenire nel rispetto dei diritti fondamentali, delle libertà previste dalla Costituzione, dei principi di trasparenza, proporzionalità, sicurezza, riservatezza, accuratezza, non discriminazione, parità dei sessi e finanche sostenibilità. Anche l’art. 7 chiarisce che l’introduzione dell’IA nel sistema sanitario non può selezionare e condizionare l’accesso alle prestazioni sanitarie secondo criteri discriminatori.

Sì, tutto giustissimo, ma la tutela di questi sacrosanti diritti e libertà trova già posto in altri testi del nostro ordinamento, innanzitutto nella nostra Carta fondamentale. E allora c’era davvero bisogno di ribadirlo?

Lo stesso dicasi per quell’isolato art. 25 recante disposizioni in materia di diritto d’autore, dunque ancora una volta principi della proprietà intellettuale.

Qui, parafrasando, si dice che le opere dell’ingegno tutelate dal copyright possono essere solamente quelle umane e, quand’anche siano state prodotte con l’ausilio di strumenti d’intelligenza artificiale, queste debbano essere comunque considerate risultato del lavoro intellettuale dell’autore. Ma non era questo già ovvio dal contesto e dalla stessa logica della Legge n. 633 del 1941?

Dietro queste affermazioni si avverte come la tensione a mettere in chiaro che la “magica” innovazione dell’IA non può scappare all’ordinamento e ai suoi principi cardine, per come sinora configurati.

Ma nell’affermarlo in modo così netto (e forse anche un po’ ingenuo) ad avvertirsi è soprattutto il brivido che la tecnologia e l’uso compiuto dal mercato possano in qualche modo sfuggire di mano.

O forse lo hanno già fatto in qualche misura, lasciando il mantra dello human-in-the-loop una mera enunciazione di principio che serve a riempire le aule di convegni e dare un senso a discussioni (pseudo)intellettuali.

Siamo seri. Si faccia avanti un avvocato o un libero professionista che userebbe ancora Chat GPT se dovesse sforzarsi a esserne egli stesso il revisore o se dovesse rendere edotto il proprio cliente delle parti che sono state scritte dal software.

Una swot analysis semi-seria della legge italiana sull’Intelligenza Artificiale

Di Riccardo Piselli

Dopo un iter parlamentare durato mesi, il Senato ha finalmente approvato il disegno di legge sull’intelligenza artificiale (Ddl IA). La legge italiana è senza dubbio da lodare per il tempismo. Siamo infatti tra i primi al mondo a regolamentarne l’uso e la diffusione. Tuttavia, nel merito, qualche dubbio la nuova legge sembra sollevarlo. L’analisi dell’avvocato Riccardo Piselli, prof. di Proprietà Intellettuale alla Luiss Guido Carli

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