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Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il 16 febbraio, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha affermato che “non è il momento per un intervento armato” e che toccherà alle Nazioni unite prender l’iniziativa per la Libia. Giusto, solo che l’Onu decide se e quando gli Stati membri agiscono, occorre quindi chiedere a Renzi cosa intende l’Italia affinché al Palazzo di Vetro venga presa una decisione; una decisione che, per esser realmente efficace, sarà difficilissima e la prima di questo tipo nella storia delle Nazioni unite. Vediamo il perché.

La confusione su chi è chi oggi in Libia regna sovrana, ci sono delle istituzioni elette (sulla democraticità dell’esercizio ci si potrebbe a lungo interrogare) che non si sono mai potute insediare appieno, perché i loro predecessori non ne riconoscevano la legittimità.

C’è una (almeno) cinquantennale faida tra clan, tribù, fazioni – e oggi gruppi stranieri – l’un contro l’altro armato, per contendersi il controllo del territorio e delle sue risorse.

Ci sono organizzazioni terroristiche e criminali che gestiscono i traffici illeciti di armi, droga ed esseri umani. C’è un confine sterminato che costeggia zone a basso tasso di stabilità o democraticità come Tunisia, Algeria, Niger, Chad, Sudan, Egitto e un lungo tratto di Mediterraneo meridionale – quello da dove negli ultimi anni partono decine di migliaia di disperati per raggiungere le nostre coste in cerca di rifugio e protezione.

Ci sono enormi interessi economici legati alle fonti energetiche.

Ma soprattutto c’è bisogno di bloccare, o cacciare, chi oggi usa la legge della forza contro i cittadini libici, al fine di avviare una transizione istituzionale verso un contesto, magari anche federale, in cui la forza delle legge possa avere la possibilità di esistere.

Tali e tanti sono gli elementi di complessità e urgente necessità d’intervento in Libia, che il Consiglio di Sicurezza avrà davanti a sé, sempre se e quando qualcuno deciderà di presentare una risoluzione su quel Paese, che quel dibattito e i suoi risultati saranno una prova del nove dell’esistenza, e quindi dell’utilità, di quell’organo dell’Onu, un dibattito che potrebbe finire per interrogarsi sulla necessità di tenere in vita le Nazioni unite stesse. Non esagero.

Un intervento in Libia non potrà esser di peacekeeping o peace making – anche perché non credo che i siano le condizioni per portar al tavolo negoziale i belligeranti – ma di peace enforcing. Là dove non c’è pace, anche se all’Onu la si scambia con la stabilità, occorre portarcela manu militari, e per farlo occorrerà agire per come autorizzato dal capitolo VII della Carta delle Nazioni unite, cioè con un uso aggressivo della forza.

Occorre quindi un mandato estremamente chiaro e dettagliato su chi potrà far cosa e fino a che punto sarà autorizzato a usare la forza. Occorrerà preparare delle zone cuscinetto ai confini, pronte a ricevere centinaia di migliaia di profughi e bloccare l’arrivo di nuovi combattenti o armi. Occorrerà rafforzare le attività di pattugliamento di tutto il Mediterraneo meridionale per scongiurare ulteriori tragedie di gente che fuggirà oltre che dal proprio Paese, anche da un
Paese in guerra. Occorrerà sostenere economicamente, legalmente, militarmente e politicamente, con le dovute attenzioni al rispetto dei diritti umani di tutti, i Paesi confinanti, che per conto loro non brillano in quanto a legalità. Occorrerà da subito organizzare il dopo che preveda come punire i responsabili degli ultimi 50 anni di violazioni dei diritti umani in Libia secondo i più alti standard della giustizia internazionale per preparare una transizione rispettosa degli obblighi internazionali previsti dai maggiori trattati. Occorrerà prevedere la ricostruzione delle istituzioni e delle infrastrutture di un Paese potenzialmente ricchissimo.

Insomma, uno sforzo immane e per tempi lunghissimi. Riusciranno gli europei, a partire dall’Italia, che fino a ieri vedevano in Gheddafi un partner strategico – parole pronunciate da Massimo D’Alema in Parlamento ancora nel 2009, ai tempi della ratifica del trattato d’amicizia Italia-Libia -, ad assumersi finalmente la responsabilità di aver concorso a creare questo stato di cose? Riusciranno ad ammettere di aver preferito, al rispetto dei diritti umani dei libici alla libertà e alla democrazia per i nostri vicini e di tutti coloro che da quel pezzo di Africa passano, la stabilità di un fornitore di petrolio?

La Libia di oggi è il prodotto di chiare scelte politiche e di competizione economica fatte oltre mezzo secolo fa e non, esclusivamente, dei bombardamenti, seppure scellerati, del 2011.

Marco Perduca, rappresentante all’Onu del Partito Radicale

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