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I dieci anni trascorsi dall’approvazione di una legge elettorale che, prima ancora di essere bocciata dalla Corte Costituzionale nelle parti principali alla fine del 2013, era stata demolita dal nome – Porcellum – assegnatole immediatamente dal suo principale estensore, l’allora ministro leghista Roberto Calderoli, possono bastare e avanzare per capire la stanchezza, anzi l’insofferenza di chi, come Michele Arnese, tende a condividere la fretta di Matteo Renzi. E a diffidare di quanti, non condividendo questa fretta, vorrebbero che la riforma elettorale predisposta dal governo venisse ulteriormente modificata dalla Camera, dopo i cambiamenti apportati a fine gennaio dal Senato, e tornasse quindi a Palazzo Madama per un altro passaggio ancora: stavolta veramente ultimo, promettono le agitate minoranze del Pd in cambio di un compromesso.

Ma le minoranze di sinistra del partito di Renzi non sono le sole a contestare tempi e contenuti della legge elettorale che porta un altro, non più infamante nome latino: Italicum. Contestazioni sono mosse – a sinistra, a destra e al centro – anche dai partiti o movimenti di Beppe Grillo, di Nichi Vendola, di Matteo Salvini, di Giorgia Meloni, di Silvio Berlusconi e infine di Corrado Passera, che ha però lo svantaggio di non avere rappresentanza parlamentare, per cui la sua opposizione può essere solo declamata, non praticata.

Ciò che si contesta, in particolare, alla riforma che Renzi vorrebbe approvata definitivamente prima delle elezioni regionali di fine maggio è l’esonero dalle preferenze per i capilista e il premo di maggioranza assegnato alla lista più votata, sia al primo colpo se supera il 40 per cento dei suffragi, sia nell’eventuale ballottaggio. Al quale le prime due liste classificatesi al primo turno non potranno apparentarsi ad altre. Non potranno cioè costituire coalizioni, subendo nella vittoria, e poi nel governo, i condizionamenti dei piccoli partiti che hanno spesso sperimentato negativamente nella cosiddetta seconda Repubblica, come del resto nella prima, tutte le combinazioni succedutesi alla guida del Paese.

Le liste tuttavia potrebbero già partire di fatto con la nuova legge come coalizioni, composte cioè da candidati concordati da più partiti. Che poi, però, potrebbero riprendersi la loro autonomia operativa dividendosi in più gruppi grazie al regolamento della Camera: la sola per la quale è stata concepita la riforma, essendo il Senato destinato, con un’altra legge voluta da Renzi, questa volta di carattere costituzionale, un’assemblea eletta dai Consigli Regionali.

La capacità, ma anche la volontà dei partiti di presentare liste combinate con altri dipende dalla loro consistenza. Che tanto più è alta, tanto meno interesse produce a cercare alleati dai quali poi dipendere al governo in caso di vittoria, o anche all’opposizione in caso di sconfitta.

Renzi, sicuro di navigare con il vento in poppa, nonostante i problemi crescenti del suo partito, specie in periferia, non ha o non mostra alcun interesse a coalizzarsi con altri, per cui è deciso a correre con una lista veramente sua. Una lista di quello che, se potesse, egli chiamerebbe non più del Pd ma del Partito della Nazione, candidata a fagocitare tutto, soprattutto nell’area di centrodestra, che è la più sconquassata.

Opposto è diventato l’interesse di Berlusconi, che mostra di non volere più il premio di lista votato al Senato per avere poi ricevuto da Renzi lo sgarbo personale e politico di perseguire e ottenere l’elezione di un nuovo presidente della Repubblica – Sergio Mattarella – non concordato con lui. Ma questa forse, per quanto politicamente solida e consistente, basata sulla sua interpretazione, diciamo così, estensiva del cosiddetto Patto del Nazareno stretto l’anno scorso con il nuovo segretario del Pd non ancora insediato anche a Palazzo Chigi, non è la sola e neppure prevalente ragione del ripensamento berlusconiano, peraltro non condiviso da tutto il suo partito.

L’ostilità o diffidenza di Berlusconi verso il premio di lista nasce anche dal terreno elettorale, e quindi politico, ch’egli perde continuamente a vantaggio della Lega guidata da Matteo Salvini, che è ormai in avanzata fase di sorpasso su Forza Italia. Già alle prese con i marosi interni del suo movimento, fra gente che è andata via e gente che minaccia di andarsene per cercare altrove nelle prossime elezioni candidature sicure, magari da Renzi, l’ex presidente del Consiglio teme una trattativa impari con Salvini per la formazione di una lista unica di quello che ormai fu il centrodestra. E sa bene che una lista davvero solitaria della sua Forza Italia, per quanto estesa a qualche settore oggi di Area Popolare, come si chiama l’unione fra i partiti di Angelino Alfano e di Lorenzo Cesa, non ha la possibilità neppure di contendere a Beppe Grillo l’eventuale ballottaggio con Renzi.

Pur da addetti ai lavori, questi argomenti possono aiutare a capire la posta in gioco con la fretta che ha Renzi di chiudere la partita della riforma elettorale, e con le resistenze dei suoi avversari o concorrenti.

Perché Renzi ha troppa fretta sull'Italicum

I dieci anni trascorsi dall’approvazione di una legge elettorale che, prima ancora di essere bocciata dalla Corte Costituzionale nelle parti principali alla fine del 2013, era stata demolita dal nome - Porcellum - assegnatole immediatamente dal suo principale estensore, l’allora ministro leghista Roberto Calderoli, possono bastare e avanzare per capire la stanchezza, anzi l’insofferenza di chi, come Michele Arnese, tende a condividere…

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