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L’intesa raggiunta tra il P5+1 e l’Iran è stata fortemente voluta dal presidente Barack Obama, che in questo modo è finalmente riuscito a rimuovere il pericolo di una nuova guerra, caldeggiata invece da Benjamin Netanyahu e dagli ambienti neocon negli Stati Uniti.
Al presidente va dato atto di aver trovato il modo di liberarsi – seppur in modo parziale – dall’inerzia che per certi versi ha reso la sua presidenza non dissimile da quella precedente di George W. Bush. Nonostante i propositi di pace, Obama si è trovato a gestire guerre e scontri geopolitici su più fronti.

Se l’accordo quadro raggiunto a Losanna sarà finalizzato nei prossimi mesi potrà rappresentare uno spartiacque nella politica americana verso il Medio Oriente: dal cambiamento di regime e il sostegno indiretto agli estremisti sunniti, alla diplomazia e la ricerca della stabilità con Paesi che fino a ieri sono stati considerati nemici. Per realizzare questa svolta però sarà necessario affrontare una serie di problemi annessi, messi sotto i riflettori proprio dall’intesa con l’Iran: il ruolo di Israele e dell’Arabia Saudita, la collaborazione con i paesi sciiti contro lo Stato Islamico, e la diplomazia verso le altre grandi potenze come la Russia e la Cina. Tutte questioni che vanno valutate con occhi nuovi, se il Presidente intende imprimere un cambiamento duraturo alla politica estera americana.

Intanto il nuovo corso si è finalmente concretizzato. All’inizio del suo primo mandato Obama aveva tentato subito di dare seguito all’affermazione quasi scandalosa da lui fatta all’inizio della campagna elettorale: “Incontrerei il presidente dell’Iran senza precondizioni“. Fu visto come ingenuo e debole da molti nell’establishment politico, ma la retorica contro la guerra è piaciuta molto agli elettori.
I primi tentativi di indire i negoziati non andarono bene, per via dei problemi interni all’Iran e dell’opposizione diffusa nelle istituzioni americane e anche in alcuni Paesi europei. A quel punto Obama stesso adottò una posizione pubblica più dura, ripetendo più volte la minaccia standard (“all options are on the table“) per difendersi contro le critiche dei repubblicani e della destra israeliana.

Allo stesso tempo ordinò un surge delle truppe nell’Afghanistan, sotto forti pressioni dei suoi consiglieri e dei militari, e ampliò il programma dei droni e della sorveglianza dei cittadini.
Per questi motivi si è diffusa l’impressione in alcuni ambienti – da entrambe le sponde dell’Atlantico – che Obama fosse fondamentalmente incapace di cambiare la politica estera americana, prigioniero di un sistema dominato dal “military-industrial complex” e dal ruolo di poliziotto del mondo.
La situazione ricordava quella del presidente John F. Kennedy che nel primo anno del suo mandato dovette rendersi conto del grande potere delle strutture militari e di intelligence che riuscivano a condizionare la politica dell’amministrazione per conto proprio, a volte contro le volontà dell’inquilino della Casa Bianca. Dopo il disastro della Baia dei Porci JFK decise di prendere in mano la situazione e di imporre la propria politica, per esempio sul Vietnam, con scelte per fermare l’escalation militare. Su questo e altri temi Kennedy fu fortemente osteggiato da chi vedeva minacciato il proprio potere sulla politica americana.

Per anni Obama ha seguito un’altra strada, cercando di mostrarsi forte avvicinandosi alle posizioni dei suoi critici. Lo ha fatto su temi economici, abbracciando la politica dei tagli di bilancio, e lo ha fatto su temi di sicurezza nazionale, espandendo la guerra al terrorismo con strumenti che lui stesso aveva criticato in passato. La paura di un nuovo attentato terroristico e della perdita di aree di influenza a favore delle potenze emergenti ha tenuto Obama dentro le righe della geopolitica degli ultimi decenni.

Per quanto riguarda il Medio Oriente il primo punto di svolta avvenne nel settembre 2013 quando i piani per bombardare il regime di Bashar al-Assad vennero fermati da diversi fattori, tra cui l’opposizione interna negli Usa, i dubbi dell’intelligence, e l’intervento della Russia. Fu proprio Vladimir Putin a “salvare” Obama dal lanciare una nuova guerra, con l’accordo sulla rimozione delle armi chimiche. Recentemente con la necessità di combattere lo Stato Islamico, è stato fatto un ulteriore passo sulla “strada di Damasco”: ora il governo Usa assicura che non ha intenzione di estromettere Assad militarmente, riconoscendo che il vuoto di potere potrebbe peggiorare la situazione.

In quegli stessi mesi erano già in corso i negoziati segreti con l’Iran che avrebbero portato al primo accordo preliminare del novembre 2013. Per Obama questo percorso significava mettersi contro due alleati fortemente contrari al riavvicinamento con la Repubblica Islamica: Israele e l’Arabia Saudita.
Contro le aspettative Obama si è impuntato sulla questione dell’Iran, combattendo una battaglia politica anche dentro gli Stati Uniti, dove gli alleati della destra israeliana esercitano un’influenza molto forte. Il Presidente ha giocato duro con i repubblicani (e con alcuni democratici), ponendo la questione in termini molto diretti: o si fa l’accordo, oppure si va verso la guerra. Se è la seconda che volete, ditelo apertamente.

Ora, con l’accordo di Losanna la strada di un riallineamento della politica occidentale verso il Medio Oriente è stata intrapresa. Rimangono degli ostacoli ma si prospetta comunque un’apertura che porterà benefici a molti paesi (compresa l’Italia).
Esiste già un’alleanza di fatto con l’Iran e anche con la Siria nella battaglia contro lo Stato Islamico. La situazione fa paura ai nostri alleati storici, che non nascondono le loro preferenze per l’altra parte: Netanyahu fiuta il rischio di isolamento e alza la voce per chiamare a raccolta i sostenitori della sua politica aggressiva. L’Arabia Saudita interviene per contrastare l’influenza iraniana a livello regionale.

Obama ha dimostrato coraggio e abilità nel perseguire l’accordo con l’Iran, ma la domanda più importante è se sarà disposto a fare il prossimo passo: non solo rompere definitivamente con la strategia di sostenere gli estremisti sunniti, ormai chiaramente la fonte del terrorismo peggiore, ma anche cercare di lavorare con la Russia.
Oltre ad aiutare direttamente a stabilizzare la situazione in Medio Oriente – per esempio frenando l’escalation nello Yemen, facilitando le trattative con Assad – la collaborazione con la Russia può essere usata per ridurre le tensioni tra le superpotenze legate alla guerra in Ucraina, e ad evitare uno scontro strategico più ampio con i grandi paesi emergenti. Cresce infatti la schiera di paesi che si stanno organizzando attorno ai Brics, con nuove forme di cooperazione e nuove istituzioni finanziarie. La decisione sarà se considerarli una minaccia, o un’opportunità.

Andrew Spannaus è giornalista e analista, fondatore di Transatlantico.info

www.transatlantico.info
info@transatlantico.info
@AndrewSpannaus

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