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Chi si accinge a riflettere sulla vocazione del servizio pubblico deve ragionare su un nodo fondamentale: nella lista dei disagi e delle inadeguatezze, infatti, si rintraccia un item che risulta strategico rispetto a tutti gli altri, al punto da pensare che affrontarlo con decisione significa accelerare la soluzione della crisi.
Sembrerà paradossale al tempo della sudditanza ai linguaggi dell’economia, ma propongo l’ipotesi che, tra le tante criticità da affrontare, quella più strategica sia la soluzione del rapporto soffocante tra politica e televisione. È questo il nodo gordiano.

Sappiamo bene che, nelle società democratiche, la comunicazione è sempre apparsa come una risorsa sospesa tra una dimensione di educazione alla democrazia e una gigantesca industria dell’intrattenimento e del divertimento. Nella stessa retorica delle definizioni delle finalità della Bbc, le funzioni culturali (informare, educare) a ben vedere prevalgono nettamente entro il trinomio semantico in cui resta solo il verbo divertire.

Che molte società e sistemi politici abbiano dunque scelto la strada di un accostamento tra politica e istituzioni da un lato, e televisione dall’altro, appare più che comprensibile, soprattutto in una temperie culturale oggettivamente diversa dal presente. Infatti, se lo Stato ha il compito preminente di assicurare servizi universali a tutti, non si capisce perché quella che gradualmente si è imposta come la vera autostrada della modernizzazione, e cioè la Tv, potesse essere esonerata da uno sguardo e da un controllo pubblici, e dunque almeno in parte sottratta alle pretese del mercato.

Questo assunto si scontra però con il modo in cui i processi sociali sono stati interpretati nel caso italiano. Solo da noi è stato inventato ed esiste il termine lottizzazione, con ciò intendendo un ossessivo riferimento delle risorse, anche umane, alle visioni politiche dominanti del paese. Solo da noi un processo di riforma, per anni studiato come esempio di modernità, si è trasformato essenzialmente in un ampliamento dei soggetti politici legittimati, finalizzando ad esso persino l’istituzione di una nuova rete. Un esempio classico di un effetto perverso di una buona causa.

Un ulteriore parametro per legittimare la decisività dell’assunzione della politica come nodo prioritario per riaprire uno sviluppo della Tv riguarda le conseguenze sociali che hanno intrecciato il discorso comune sulla televisione, la formazione di pregiudizi duri a morire e, dunque, le modificazioni nella percezione collettiva di cosa è la Rai. In questo contesto era impossibile per quanti pagavano il canone sentirsi azionisti della Rai e tantomeno tifosi. Intere generazioni hanno condiviso, persino al di là dei parametri reali, l’idea che la Rai fosse un latifondo della politica, per ciò stesso, condannata ad un minor grado di innovazione e, dunque, fatalmente destinata a stare nella retrovia dei cambiamenti nell’immaginario e nella creatività.
Nel libro “Lo spettacolo del consumo: televisione e cultura di massa nella legittimazione sociale” ho già argomentato, in tempi non sospetti, l’idea che i soggetti moderni ritengono la Tv un terreno di libertà dall’arbitrio della politica. La profilatura dell’opinione pubblica intorno a un assunto simile ha rappresentato, negli anni, un elemento di condizionamento del mercato televisivo e della stessa costruzione delle tipologie di consumo. In questa direzione, la scarsa riconoscibilità complessiva dell’offerta Rai rispetto al modello commerciale ha fatto il resto, riducendo il prestigio del servizio pubblico persino tra i suoi potenziali difensori.

Osservando criticamente questa nuvola di parole, è indubbio che molti degli argomenti citati sono riconducibili a uno dei più seri problemi nel modello di sviluppo del paese: la stravittoria di un modello di discussione culturale e argomentativa che è la vera fortuna del populismo. Troppi luoghi comuni sugli eccessi della politica, sul canone e sugli sprechi sono totalmente infondati, ma ciò non toglie che essi siano ormai irresistibili nel teatrino delle battute sbrigative e dei ragionamenti di corto respiro.

A queste dimensioni si deve avere il coraggio di aggiungere che la dipendenza della Tv dalla politica ha ridotto l’innovazione di programma, di prodotto e di linguaggio, indebolendo la Rai nella competizione di mercato. Ha ridimensionato la possibilità che nascesse un ceto di comunicatori e giornalisti pienamente aperti alle esigenze dei mercati di una comunicazione sempre più competitiva. Ha aumentato la paura di sbagliare perché diventavano troppi i centri di giudizio e di intervento lungo il continuum azienda/politica. Ha soprattutto inflazionato la frattura tra giovani e Tv, anche sulla scia di un’apatia politica rigonfiata dal populismo degli ultimi decenni.
Bisogna ammettere che non tutte le dimensioni descritte sono empiricamente riferibili alla dipendenza della Rai dalla politica; ma il problema è che, nel teatrino delle rappresentazioni pubbliche, tutte sembrano univocamente discendere da questo nodo, e diventa dunque indispensabile una terapia d’urto capace di rimuovere questo argomento dal dibattito, togliendo ogni alibi alla decisione aziendale e all’autonomia dei professionisti.

E la prova c’è già nel dibattito di questi ultimi mesi: non sembra vero, ma la semplice scelta di annunciare un programma di disimpegno della politica dalla Rai ha già provocato benefici evidenti nel dibattito e qualche distensione dei pregiudizi. È il momento di prendere atto che l’operazione di rilancio del servizio pubblico è strettamente collegata alla rottamazione dei legami tra l’azienda televisiva e il suo editore di riferimento, anche al fine di rilegittimare diversamente le risorse finanziarie per l’innovazione di cui il servizio pubblico ha urgente bisogno.

Troppa politica nuoce gravemente alla salute della Rai

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