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L’immigrazione in Europa è un fenomeno rilevante; in termini di immigrazione netta, si raggiungono punte che superano un milione, un milione e mezzo di individui. Nel decennio 2001-2011 Spagna, Italia e Regno Unito sono i Paesi in cui gli arrivi sono stati più consistenti; nell’Unione europea a 28 sono 14milioni le persone acquisite in termini netti.

Ci sono Paesi di antica e altri di nuova immigrazione; l’Italia è certamente tra questi ultimi. I Paesi di nuova immigrazione (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Finlandia) hanno caratteristiche abbastanza specifiche. L’Italia rappresenta un caso particolarmente importante, non solo per la dimensione quantitativa del fenomeno. Al di là della forte crescita del numero degli sbarchi a Lampedusa, che è solo una parte della questione, c’è la realtà dell’immigrazione in senso più largo. Con circa 5,5 milioni di immigrati, in Italia è come se si fosse formata una ventunesima regione della dimensione della Campania. C’è poi da considerare il fatto che la tipologia di immigrati e dell’immigrazione ha subito nel tempo importanti trasformazioni. Non si tratta più di un fenomeno migratorio come quello degli anni Settanta.

È stato inoltre rilevato che abbiamo un’immigrazione con più giovani, che i Paesi di provenienza sono cambiati e che si parla sempre di più di immigrazione di carattere familiare. Se prima chi raggiungeva l’Italia erano principalmente marocchini, ora si parla più di romeni e in questi ultimi anni si segnala una crescente presenza di persone provenienti da Bangladesh, Pakistan, India, Sri Lanka.

L’immigrazione familiare, con la presenza di minori e delle seconde generazioni, determina il costituirsi di un vero e proprio progetto che spinge i migranti a insediarsi sul territorio con un’idea che facilmente si trasforma in una scelta migratoria permanente: il lavoro, i figli e la presenza di una rete amicale spinge in questa direzione. Un aspetto su cui riflettere è relativo alla fatto che la maggior parte dei migranti non è più clandestina, ma in possesso di permessi di soggiorno spesso a lungo termine o anche della cittadinanza italiana. Su circa 5 milioni di migranti regolari, la presenza di 300mila irregolari rappresenta quindi un livello fisiologico. Secondo l’Istat la maggior parte di coloro che hanno fatto la regolarizzazione nel 2003 sono ancora in Italia e hanno un valido permesso di soggiorno. Questo non significa che il problema possa considerarsi superato, ma possiamo ritenere che sia largamente sotto controllo. Nell’ultimo anno sono state concesse 100mila cittadinanze e questo numero è destinato a crescere. La Fondazione Ismu stima che nei prossimi 20 anni diventeranno cittadini italiani circa 2milioni e mezzo di persone.

Analizzando i dati, è indiscutibile che l’immigrazione ringiovanisca, o per lo meno compensi, una carenza italiana di natura demografica. A questo contribuisce anche un livello più alto di natalità tra i migranti, benché negli ultimi anni le diffuse difficoltà abbiano portato la media di figli per donna tra le straniere da 2,6 al 2,3 (meno di 2 nelle grandi città). Quindi, è ragionevole ipotizzare che gli stranieri incontrino le stesse difficoltà delle coppie italiane nel diventare genitori. Certo la tradizione e la cultura giocano un ruolo importante nel mantenere alto il tasso di natalità, ma è impensabile credere che ciò possa risolvere la caduta della natalità che da tempo ci colpisce.

L’immigrazione ha dato un forte contributo anche al mercato del lavoro, fornendo un gran numero di potenziali lavoratori. Nel 2002-2011 si stima che il contributo netto che l’Italia ha ricevuto dall’estero sia mediamente di 250mila unità annue, gran parte delle quali in età attiva. A questo dato positivo deve seguire una riflessione anche in termini di impatto sul welfare. Secondo alcuni calcoli, si stima che gli anni totali di vita della popolazione dei 250mila migranti acquisiti mediamente ogni anno, qualora dovessero trattenersi indefinitamente nel nostro Paese, sia di 14,5 milioni di anni-vita. Di essi, mezzo milione sarà speso in età di formazione, 9 milioni in età lavorativa e 5 milioni in età da pensione. Come si vede, il rapporto tra tempo dell’attività e tempo del pensionamento non è che moderatamente favorevole al primo. Per misurare gli effetti del welfare sulla popolazione, si usa in genere un indicatore statistico legato al rapporto tra gli over 65 e coloro che sono in età lavorativa (20-64 anni). Applicando tale indicatore alla popolazione censita nel 2011, per gli italiani tale rapporto è del 37% (37 persone a carico su 100 produttive). Per i migranti, invece, il valore è di 3 su 100. Se pensiamo, ad esempio, ai problemi della pensione o della copertura sanitaria, sembrerebbe un dato talmente positivo da far pensare a una soluzione dei problemi di quadratura del welfare, proprio grazie al contributo dei “giovani” immigrati. In realtà, se si guarda lo stesso indicatore in una prospettiva di lungo periodo, la differenza tra italiani e stranieri risulta quasi annullata: ciò che era 37 a fronte di 3 diventa (se si conteggia il rapporto tra anni da anziani e anni da attivi) 87 a fronte di 62. Pur confermandosi il vantaggio della componente straniera, non si tratta certo si un apporto risolutivo. In una visione prospettica è facile rendersi conto che avremo tra un paio di decenni quasi 200mila persone che si affacceranno annualmente all’età anziana, non essendo nate in Italia e avendo iniziato a versare i contributi in età avanzata. Soggetti che si troveranno verosimilmente ad avere un credito pensionistico di modeste dimensioni, il che potrebbe costituire un serio problema da affrontare.

Poi c’è un ultimo grande tema che varrebbe la pena di affrontare: quello dell’Italia come Paese di emigrazione nel XXI secolo. Certo non sono più le valigie di cartone di una volta, ma non per questo il fenomeno ha meno rilievo e significato anche sul piano sociale. Si tratta di giovani che spesso hanno un titolo di studio piuttosto alto e che vanno a Londra, Berlino o negli Usa. Sono una risorsa che il nostro Paese ha formato e che cede ad altri. È vero che il mondo si è allargato e che giustamente si deve andare oltre i confini nazionali, ma il rischio che corre l’Italia è quello di esportare proprio quei cervelli che, in un Paese come il nostro, servirebbero a generare l’innovazione e lo sviluppo che continuamente ci auguriamo di ritrovare.

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