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Parto dal presupposto che tutto sommato i diversi Paesi in qualche modo coinvolti in questo fenomeno dei flussi di richiedenti asilo abbiano gli stessi interessi. Un primo obiettivo è senza dubbio quello di ridurre il numero di coloro che sono costretti a fuggire dal proprio Paese. A questo proposito non c’è molto da dire, la soluzione la conosciamo tutti: non può che essere il realizzarsi  di salde istituzioni democratiche nei vari Paesi dai quali provengono i profughi.

LA QUESTIONE “ACCOGLIENZA”

Un secondo obiettivo è quello di garantire per quanto possibile che coloro i quali fuggono possano trovare accoglienza il più vicino possibile, evitando rischiose traversate come quelle che si hanno oggi ad esempio dalla Somalia fino all’Italia. In questi lunghi viaggi le persone traversano una sorta di spazio vuoto in cui non è possibile trovare accoglienza. Pensiamo invece a come l’accoglienza in Libano – che comunque è stata assicurata in questi anni rispetto ai fuggiaschi della Siria – ha attenuato la pressione dalla Siria verso l’Europa. La parola chiave è, ancora una volta, democrazia: se si realizzassero condizioni adeguate di vita civile, anche solo nei Paesi dell’Africa settentrionale che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, tutto lo scenario che abbiamo di fronte dei flussi di richiedenti asilo cambierebbe in meglio. Un terzo obiettivo  è che coloro che si trovano a viaggiare verso l’Europa lo facciano in condizioni dignitose e trovino poi in Europa un’accoglienza adeguata. Sappiamo tutti che non esiste un’unica misura idonea a garantire ciò. Si tratta di mettere in campo – e in parte lo si è fatto ma in parte ancora lo si deve fare – una strategia complessa. Credo che sia tempo, anzitutto, di passare dagli studi ai fatti per quel che riguarda la possibilità di procedure di ingresso protette. Da anni si discute in Europa di questo, dell’attivazione nei luoghi di partenza e/o di transito dei rifugiati, di uffici nazionali ed europei, abilitati a ricevere domande d’asilo e a dare, in caso di istanza non infondata, un titolo di viaggio per l’arrivo in Europa usando gli ordinari canali di comunicazione. Procedure di questo tipo, oggi, sono pressoché inesistenti. Abbiamo studi, ma non procedure operative.

Credo però che davanti alle tragedie che quotidianamente si realizzano nel Mediterraneo, sia un dovere morale sperimentare procedure di questo tipo. Le tragedie ci saranno ancora, perché non possiamo immaginare che procedure di questo tipo divengano immediatamente un’alternativa davanti a flussi così imponenti come gli attuali, ma almeno potremmo dire che abbiamo fatto quello che potevamo per creare un’alternativa.

IL PROBLEMA DEL SOCCORSO

Ad ogni modo, le traversate sui barconi continueranno ugualmente. I punti più delicati da considerare quando si parla di eventi così drammatici come gli sbarchi di Lampedusa, sono vari. Innanzitutto abbiamo il problema del soccorso, di cui si è discusso così tanto che ormai è stato detto tutto. Basta ricordare che quella del soccorso in mare è una delle nostre leggi più antiche, il resto viene di conseguenza. Un secondo punto è quello delle carenze nella prima accoglienza. La Grecia e l’Italia sono state in questi ultimi anni sotto accusa in Europa per l’incapacità di garantire condizioni dignitose o anche solo rispettose dei diritti umani fondamentali. L’altro punto delicato è quello dello squilibrio tra i Paesi europei. L’Italia si è specializzata nella prima accoglienza, Germania e Svezia, invece, nella seconda accoglienza e nella gestione delle domande d’asilo. Tutti questi Paesi lamentano un eccessivo carico di responsabilità. È chiaro che c’è qualcosa che non va nella distribuzione dell’accoglienza in Europa. Di fronte a queste carenze e a questi squilibri, una prima esigenza che non viene comunemente messa in luce è quella di prevedere i flussi: c’è ancora una visione troppo emergenziale del fenomeno. Come se ogni mese si dovesse guardare il mare chiedendosi quanti ne arriveranno. È possibile invece fare degli studi e  delle previsioni come per gli altri fenomeni globali.

L’ESEMPIO DELLA SVEZIA

Oggi solo la Svezia dispone di un adeguato servizio, significativamente chiamato di intelligence perché si tratta di acquisire informazioni su scala globale per riuscire a interpretare determinati  fenomeni  e poter giocare d’anticipo. Gli altri Stati dell’Ue e l’Ue stessa non hanno invece adeguati servizi di intelligence che consentano loro di prevedere i flussi e questo è un fattore di difficoltà dal quale derivano situazioni di emergenza che potrebbero essere evitate. Bisogna poi sicuramente mettere in campo azioni specifiche per ridurre gli squilibri verso i Paesi dell’Ue che si trovano ad accogliere le persone in fuga. Tra queste azioni rientra sicuramente quella di avvicinare gli standard di accoglienza. Abbiamo una direttiva europea che impone livelli minimi di accoglienza da parte dei diversi Paesi, ma in concreto gli standard sono molto diversi. E queste differenze hanno un qualche effetto sull’orientamento dei flussi perché, ragionevolmente, i flussi si indirizzano dove l’accoglienza appare più adeguata. Per fare un esempio banale: uno dei fattori considerati più rilevanti per prevedere se i flussi si indirizzeranno maggiormente verso la Germania oppure verso la Svezia è l’ammontare del contributo economico dato in quei paesi in alternativa all’assistenza presso le apposite strutture. In secondo luogo è importante rendere il più simile possibile le procedure e i criteri di valutazione delle domande. È indubbio che ci siano  differenti criteri nell’applicare princìpi che pur sono analoghi. Da questo punto di vista, favorire un interscambio dei funzionari tra le diverse autorità competenti  nei diversi Stati potrebbe determinare il formarsi di una cultura comune e potrebbe garantire una maggiore uniformità, evitando l’impressione che esistano Paesi “facili” e Paesi “difficili”. Va anche osservato a proposito degli squilibri che se i costi dell’accoglienza fossero in buona misura a carico dell’Europa, molte delle polemiche verrebbero meno. Infine, c’è il tema del diritto alla circolazione su scala europea di coloro che ottengono protezione.

Oggi questa mobilità è decisamente ridotta. Tuttavia, il favorirla sarebbe positivo perché si tradurrebbe nella possibilità, per coloro che sono inseriti nel sistema europeo di protezione, di raggiungere il luogo che desiderano che, sovente, è anche il luogo dove hanno più chance di integrazione, grazie a  legami familiari, comunitari o a vantaggi sul piano linguistico o del background culturale.  Dunque, favorire lo spostamento delle persone nel territorio europeo  sarebbe anche nell’interesse degli Stati. Ma per questo ci sarebbe bisogno di maggiore fiducia tra gli Stati membri sulla base anche di un maggiore rispetto delle regole da parte di tutti.

Immigrazione, perché Italia e Europa peccano in Intelligence

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