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Il discorso tenuto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu al Congresso americano, su invito della maggioranza repubblicana e senza l’avallo del presidente Barack Obama, rappresenta il punto più basso delle relazioni fra gli Stati Uniti e Israele. L’attenzione dei media è stata centrata sull’antipatia fra le due personalità e sullo sgarbo fatto dai repubblicani al presidente, divenuto “anatra zoppa” dopo il disastro subito nelle elezioni di midterm dello scorso novembre. La bipartisanship che aveva caratterizzato la politica americana nel passato è ormai un ricordo. La sua scomparsa è pericolosa per gli alleati degli Usa. Essi non possono più contare sulla stabilità delle politica di Washington, malgrado i cambi di amministrazione.

Ma il problema principale non è questo. E’ geopolitico. Israele – appoggiato dagli Stati del Golfo – intende conservare il suo status di unica potenza nucleare del Medio Oriente. E’ persuaso di poter garantire solo in tal modo la propria sopravvivenza, in una regione in piena e imprevedibile turbolenza. Washington, invece, intende riconfigurare gli assetti geopolitici della regione: da una situazione di egemonia militare israelo-americana, a una di balance of power. In essa, le quattro potenze principali della regione – Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele – dovrebbero equilibrarsi fra loro, consentendo agli Usa di ridurre i loro impegni militari, ma garantendo al tempo stesso che la garanzia del mantenimento dell’equilibrio rimanga nelle mani americane e non venga progressivamente assunta dalla Cina e dalla Russia.

Quello che è in gioco è un radicale mutamento delle alleanze tradizionali degli Usa, fino a qualche anno fa strette con l’Arabia Saudita e il blocco sunnita contro l’Iran e la “mezzaluna sciita”, che si estende dagli Hazara in Afghanistan, agli Hezbollah in Libano. Gli interventi militari Usa, nel 2001 in Afghanistan con la distruzione del regime talebano, e del 2003 in Irak, che ha consentito agli sciiti di prendere il potere in Irak, sono stati “regali” – non so se per calcolo o per caso – fatti da Washington a Teheran. Gli Usa non hanno mai preso troppo sul serio la proliferazione nucleare in Iran, né le sconsiderate minacce di qualche fanatico iraniano di voler distruggere Israele. Condivido tale valutazione.

Poche armi nucleari, eventualmente disponibili a Teheran, sarebbero utili solo per evitare che l’Iran venisse attaccato. Ma nessuno ha la minima intenzione di farlo. Quindi, la loro utilità, se non come status symbol, è ridotta se non nulla. Solo dei folli potrebbero pensare a un attacco nucleare preventivo contro Israele. Entro poche ore l’Iran sarebbe distrutto. E gli iraniani, eredi delle tradizioni commerciali persiane, non sono folli. Con l’inizio del programma nucleare e la mobilitazione patriottica che ha comportato in Iran, i dirigenti di Teheran si sono legati le mani. Sono persuaso che molti di loro rimpiangono tale scelta. Ma non possono abbandonarla, senza “salvare la faccia”. La scommessa fatta dagli Usa sulla loro razionalità, a parer mio, è corretta. Netanyahu, che dovrà affrontare difficili elezioni politiche il 17 marzo, ha avuto buon gioco nel rifiutarla, trovando il sostegno da parte dei repubblicani Usa, che hanno approfittato dell’occasione per umiliare Obama. A parer mio, nonostante il gigantesco sgarbo fatto al loro presidente, i rapporti fra gli Usa e Israele non muteranno grandemente.

La geopolitica è indifferente ai calcoli politici contingenti e alle simpatie o antipatie fra i leader, che tanto attirano l’interesse dei media. La posta in gioco per Washington è molto maggiore di quanto sia il desiderio israeliano di mantenere l’egemonia nucleare nel Medio Oriente. In questo, Washington può contare completamente sul sostegno degli europei. Essi sanno benissimo che l’Iran è lo Stato più occidentalizzato della regione. Sanno anche che è necessario coinvolgere la Turchia negli equilibri regionali. Un chiaro segno al riguardo è la recente visita a Erbil e a Baghdad del ministro turco della Difesa e le dichiarazioni di Ankara di essere orientata a concorrere alla riconquista di Mosul, oggi occupata dallo Stato Islamico, già sotto pressione da parte dell’Iran, oltre che dalle forze irachene e curde.

A parte la sconfitta del Califfato, un accordo con l’Iran è importante per un altro motivo. L’unica alternativa per diminuire la dipendenza dell’Europa dal gas russo, è di utilizzare le enormi riserve di gas iraniano, avviandolo in Europa tramite la Turchia. Unica, perché il gas liquefatto che potrebbe essere esportato dagli Usa, avrebbe un costo troppo rilevante per l’Europa. Ne frenerebbe la già anemica ripresa economica. Una regolarizzazione dei rapporti con l’Iran, sarebbe particolarmente importante per l’Italia, che è il Paese più penalizzato dalle sanzioni imposte per il nucleare alla Repubblica Islamica, e che con l’Iran ha sempre avuto interessanti rapporti, anche commerciali. In Iran ebbe inizio, negli anni Cinquanta, la politica dell’Eni contro le “sette sorelle” e l’espansione delle esportazioni italiane di armamenti. La Farnesina segue attentamente la situazione. Non per nulla il viceministro Lapo Pistelli ha visitato il Paese subito dopo l’elezione del presidente Hassan Rouhani e il ministro Paolo Gentiloni si è recato recentemente a Teheran, per sottolineare il favore con cui il nostro Paese vedrebbe la conclusione di un accordo sul nucleare, che salvaguardi gli interessi e il prestigio di tutti, e la cessazione di sanzioni che stanno grandemente danneggiando l’economia italiana.

Perché Obama flirta con l'Iran

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