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È possibile rimuovere tutte le forme di precarietà per approdare a un contratto unico a tempo indeterminato con tutele crescenti, creando una rete moderna di ammortizzatori sociali orientati al reinserimento occupazionale? A questo interrogativo hanno tentato di rispondere studiosi, politici, imprenditori e sindacalisti protagonisti del convegno Lavoro: cosa cambia davvero con il Jobs Act e la Garanzia Giovani? Riforme e politiche del lavoro ai tempi del governo Renzi”.

L’iniziativa, promossa presso la Sala del Parlamentino del Cnel da Adapt – il pensatoio creato nel 2000 da Marco Biagi – e dall’agenzia per il lavoro Synergie Italia, ha affrontato i temi caldi della riforma approntata dal governo e cambiata dalle forze politiche di maggioranza. Testo approdato nell’Aula di Montecitorio e che continua ad alimentare lo scontro tra Matteo Renzi e la Cgil.

Il fallimento di Garanzia Giovani

Parlare degli effetti del Job Act – quarta riforma del lavoro in quattro anni – vuol dire per il presidente di Adapt Emmanuele Massagli ragionare sui limiti emersi nella realizzazione del programma “Garanzia Giovani”: il piano concepito per promuovere strategie attive di inserimento occupazionale a favore dei ragazzi privi di lavoro, formazione e titoli.

Nonostante lo stanziamento di 1,5 miliardi di euro di fondi europei, l’applicazione ad opera delle istituzioni regionali ha prodotto risultati molto deludenti: 283mila giovani iscritti su una platea di 700mila persone, e appena 7mila posti disponibili.

Convinto che il futuro passi per l’adozione della Flexsecurity scandinava o anglosassone, l’amministratore delegato di Synergie Italia Giuseppe Garesio ritiene necessario un coordinamento tra Stato e amministrazioni territoriali. E chiede di riconoscere e premiare il ruolo prezioso di orientamento svolto da agenzie per il lavoro e centri per l’impiego.

Allargare e non sostituire gli ammortizzatori sociali

Riguardo ai contenuti del Job Act, i punti di vista delle rappresentanze dei lavoratori restano lontani.

Il segretario confederale della Cisl Gigi Petteni reputa positiva ed equilibrata la mediazione trovata fra le formazioni che appoggiano il governo. Animato a suo giudizio dalla volontà di muoversi da forme di lavoro precarie ad attività stabili, tramite una politica di tutele collettive e di tagli di tasse e contributi per le aziende che assumono.

Molto laica è la sua valutazione sulla modifica dell’Articolo 18 dello Statuto del 1970: “Il vero problema dell’Italia non è costituito da licenziamenti individuali sempre più ridotti, bensì dal ricorso crescente ai licenziamenti collettivi”. La strada da seguire, rimarca, è un’innovazione degli ammortizzatori sociali nel senso delle politiche attive: “Non sostituendo le risorse stanziate oggi per affrontare una crisi eccezionale, ma prevedendo riqualificazione e attività utili nel corso dell’erogazione della cassa integrazione”.

Le protezioni universali costano e richiedono investimenti pubblici

Ben più critica è l’opinione espressa dal segretario generale Lavoratori atipici della Cgil Claudio Treves. Per il quale le regole all’esame del Parlamento rientrano nella filosofia ispiratrice degli interventi sul lavoro portati avanti dal 1997: “Riforme che in nome della più ampia flessibilità a favore delle imprese hanno condannato i lavoratori alla precarietà, provocato il crollo dell’occupazione, reso il 70 per cento dei contratti lavorativi rapporti a termine”.

Convinto che il requisito preliminare per ogni intervento sul lavoro passi per una strategia pubblica di sviluppo e investimenti a favore della domanda interna e dell’economia reale, l’esponente di Corso d’Italia pensa che l’universalizzazione degli ammortizzatori sociali richieda risorse significative, superiori a quelle oggi previste.

Risorse economiche e professionali, visto che “le politiche per il reinserimento occupazionale comportano competenze e conoscenze specifiche del territorio da parte di chi prende in carico il lavoratore nei centri per l’impiego”.

Era necessario più coraggio riformatore

Culturalmente diverso ancorché improntato a scetticismo sui risultati della riforma governativa è il ragionamento svolto da Alessio Rossi, responsabile Nuova imprenditorialità di Confindustria.

Il quale teme che in un’Italia sempre più ostile al “fare impresa” i fondi europei erogati per Garanzia Giovani rischino di essere gettati al vento: “Contribuiranno a mappare le competenze e a certificare le persone prive di lavoro. Ma verranno orientati verso le società che fanno formazione anziché essere destinati all’abbattimento del costo del lavoro e all’aumento degli sgravi e incentivi fiscali-contributivi per le aziende che assumono. Perché i tagli contemplati nella Legge di stabilità non aiuteranno a produrre nuovi posti. Tutt’al più stabilizzeranno i rapporti precari esistenti”.

Riconoscendo il “salto psicologico rilevante” compiuto con il Job Act, il rappresentante di Viale Astronomia avrebbe desiderato maggiore coraggio: “Perché il contratto con tutele crescenti nel tempo resta una delle forme di rapporto lavorativo e vale esclusivamente per i nuovi occupati. E le regole sui licenziamenti non dovranno lasciare spazio a interventi arbitrari della magistratura. Consentiti per ora da una legge delega nebulosa”.

I passi in avanti secondo Damiano

Un’orgogliosa rivendicazione della bontà del testo frutto del compromesso nella maggioranza di governo viene dagli esponenti politici più coinvolti nel tema. Entrambi soddisfatti della riforma, in modo sorprendente alla luce dei rispettivi punti di partenza.

Il parlamentare del Partito democratico Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, elenca i punti più validi e proficui del documento: “L’applicazione delle nuove norme sull’Articolo 18 alle persone neo-assunte – ora si tratterà di individuare con precisione le fattispecie dei licenziamenti discriminatori – il compenso orario minimo per i lavoratori privi di contratto, il controllo a distanza sui luoghi e gli strumenti ma non sulle persone, l’interruzione della cassa integrazione soltanto in caso di cessazione definitiva dell’attività imprenditoriale, il superamento delle forme più precarie di rapporti, la tutela più robusta per i genitori e i congedi per i periodi di protezione a favore delle donne vittime di violenza e persecuzione, la certificazione della veridicità delle firme per le dimissioni in bianco che non devono essere prefabbricate, la parità di retribuzione nei cambiamenti di mansione per ristrutturazioni aziendali”.

Condividendo l’obiettivo di una protezione sociale universale, l’ex ministro del Lavoro ritiene necessario aggiungere ai fondi pari a 1,5 miliardi stanziati per i futuri ammortizzatori sociali circa 600 milioni di euro: “Fondamentali per erogare tutti gli assegni richiesti di cassa integrazione”.

Il valore delle parti sociali

Riguardo al conflitto in atto fra Palazzo Chigi e organizzazioni sindacali, Damiano reputa del tutto “legittima e consapevole” la scelta di Cgil e Uil di promuovere lo sciopero generale contro la riforma del lavoro.

E rilevando “il ruolo cruciale delle associazioni collettive di lavoratori e imprese che convogliano malumore e proteste individuali presso le istituzioni politiche”, consiglia al “premier insofferente verso i corpi intermedi” di ascoltare di più le parti sociali: “Perché soltanto così possiamo mantenere la pluralità culturale del Partito democratico, come avviene nel Labour britannico e nella socialdemocrazia tedesca”.

L’approdo del percorso avviato negli anni Novanta

Radicalmente antitetica a quella della Cgil è la riflessione del parlamentare del Nuovo Centro-destra Maurizio Sacconi, presidente della Commissione Lavoro del Senato.

Ai suoi occhi la legge delega approdata a Montecitorio ha la potenzialità di portare a compimento il percorso promosso con il pacchetto Treu del 1997: “Coniugare flessibilità e sicurezza nel lavoro, favorendo l’acquisizione di competenze continue da parte del lavoratore grazie a una stretta relazione tra attività professionale e percorsi educativi”.

L’unico punto critico messo in risalto dall’ex responsabile del Welfare è il mantenimento delle competenze sul lavoro – agenzie e centri per l’impiego, sicurezza, programma Garanzia Giovani – in capo alle regioni e non allo Stato. Mentre grande apprezzamento è riservato all’idea di un voucher assegnato al singolo lavoratore, che sceglie di spenderlo nell’agenzia di collocamento preferita creando una concorrenza virtuosa: “E agevolando un ampio ventaglio di offerte tra centri di ricerca pubblici, privati e misti lavoratori-imprenditori”.

Un nuovo Testo unico del lavoro

Riaffermando il principio responsabilizzante e tendenzialmente universale della base assicurativa degli ammortizzatori sociali, Sacconi preannuncia la redazione di un nuovo Testo unico sulle tipologie contrattuali lavorative.

L’obiettivo è creare, al posto dello Statuto del 1970, un corpus di norme giuridiche coerenti con il diritto comunitario, inserite nel Codice civile, comprensibili per gli investitori stranieri.

Quanto all’Articolo 18, precisa l’esponente di Ncd in contrasto con le parole pronunciate da Damiano, la regola sarà costituita dall’indennizzo economico. “Mentre l’eccezione del reintegro nel posto di lavoro comprenderà il numero ristretto dei licenziamenti discriminatori e delle fattispecie che più si avvicinano ad essi”.

Perché Damiano e Sacconi promuovono l’ultima versione del Jobs Act

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