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Lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interna israeliano) ha fatto sapere giovedì di aver bloccato una cellula di Hamas, focalizzata in Cisgiordania, che aveva in previsione di compiere attentati contro uno stadio e contro alcuni tram.

Sono stati arrestati 30 militanti, che, secondo quanto riportato dai servizi, si sarebbero addestrati all’estero: sono quasi tutti palestinesi, ma tra loro c’è pure un giordano e un kuwaitiano. L’intelligence israeliana ha collegato i nomi dei catturati a due attentati avvenuti nel nord del West Bank il 31 agosto. In quell’occasione non ci furono vittime, ma la vicenda, adesso, si inquadra nella situazione di tensione attuale: negli ultimi mesi sono stati uccisi 11 israeliani per mano di attentatori palestinesi.

Sembra che alcuni membri della cellula, fossero stati “assunti” in Giordania già nel 2012, mandati poi a fare addestramento in Siria, Striscia di Gaza e Turchia, prima di rientrare come operativi in territorio palestinese. Proprio dalla Turchia, secondo le rivelazioni diffuse da Shabak, sarebbero arrivati gli ordini per iniziare a pianificare gli attacchi.

La storia è interessante per varie ragioni: primo, perché dimostra (di nuovo, se ce ne fosse bisogno) come il passaggio di informazioni e di uomini, nella regione mediorientale sia molto fluido e in fin dei conti senza troppi dreni: terroristi che entrano e escono da territori delicati, messaggi che arrivano da un paese Nato, senza che questo possa accorgersi di niente – ma, trattandosi della Turchia, tutto è relativo. Non una circostanza nuova, di certo.

Altro aspetto molto interessante, sta nell’individuazione del principale degli obiettivi che la cellula si poneva: attaccare il Teddy Stadium di Gerusalemme. Stadio di calcio da oltre 20 mila posti, che ospita le partite del Beitar e dell’Hapoel, e che spesso è usato come campo casalingo dalla nazionale israeliana. Il Beitar Gerusalemme è noto per avere un gruppo di sostenitori radicali, ultra conservatori e nazionalisti, che negli anni sono stati protagonisti di manifestazioni razziste e aggressioni violente contro le minoranze etniche e religiose.

Ma dietro alla volontà di colpire lo stadio, non c’è solo la rappresaglia di Hamas contro le ali radicali dell’ebraismo (le realtà Utras ne sono covo), e non c’è semplicemente la necessità, macabra, di portare attacchi contro centri di assembramento di persone – inutile dire, per procurare il maggior numero di vittime possibili. Il tutto si inquadra anche, nella volontà generale del jihadismo attuale di minare il mondo sportivo.

Domenica nella provincia orientale afghana di Paktika, un kamikaze in moto si è lanciato contro gli spettatori di una partita di volley – organizzata dalla polizia locale, nota da non sottovalutare, giustamente. Il bilancio è stato di un cinquantina di morti e svariati feriti: si tratta del più grande attacco contro civili che si è registrato negli ultimi mesi – a luglio, per l’attentato in un mercato, erano rimaste uccise 90 persone, ma in quell’occasione i Taliban non rivendicarono l’azione.

Analogamente, si ricorderanno gli attenti degli Shabaab somali contro gli spettatori, televisivi, dei Mondiali di calcio: uomini e donne e bambini, raccolti in bar e posti pubblici a vedere le partite in Tv, fatti saltare in aria da attentatori kamikaze o autobombe.

La guerra della jihad allo Sport, non passa solo dalle stragi, ma anche dalle privazione che il mondo radicale islamico via via ha provato ad imporre: dalle minacce alle divise sportive, al divieto iraniano di vedere squadre maschili alle donne. Numerose fatwa e trattati religiosi hanno avuto come fulcro le nudità – considerate improprie – mostrate dagli atleti durante alcune competizioni (compresi, appunto, i pantaloncini da calcio che scoprono le gambe), e la sconveniente promiscuità che uomini e donne potrebbero avere sugli spalti delle competizioni sportive. Faceva notare tempo fa Roberto Tottoli sul CorSera, che certe visioni, si richiamano direttamente «alla condanna di Maometto verso certi giochi del suo tempo», ma quelli «erano spesso giochi d’azzardo» dal giustamente incerto valore etico e morale.

Tuttavia, sebbene ci siano di mezzo precetti e azioni violente, lo Sport – il calcio in primo luogo – stanno riuscendo dove altri prodotti liberali (occidentali?), non hanno avuto spazio. Scriveva sempre Tottoli: «Più che nei costumi, nelle misure di veli e vestiti e nelle pratiche di ogni giorno, è infatti forse nello sport che si realizza l’effetto più dirompente dei processi di globalizzazione. Pratiche e passioni sportive sono infatti da decenni, dal Marocco innamorato del calcio al Pakistan campione di cricket, del tutto simili a quel che accade in Europa o America».

Gli integralisti islamici, i jihadisti, lo sanno bene, e sanno che combattere la passione sportiva è molto più difficile che far girare proclami e propaganda anti-Occidente. Per questo pianificano azioni violente, punitive, rappresentative.

E il prossimo Mondiale di calcio, è previsto in Qatar.

@danemblog

Hamas voleva colpire uno stadio di calcio: il jihad, di nuovo, contro lo sport

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