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La scorsa settimana l’Antitrust ha varato una consultazione lampo sul rating di legalità. Tale strumento è stato più volte indicato come una innovazione importante in ambito di responsabilità aziendale, in quanto sancisce e premia di fatto un’impresa che adotti «processi – si legge nel testo che l’ha istituito – volti a garantire forme di Corporate Social Responsibility (Csr) anche attraverso l’adesione a programmi promossi da organizzazioni nazionali o internazionali e l’acquisizione di indici di sostenibilità».

Tuttavia, a ormai due anni dalla sua introduzione (autunno 2012) occorre prendere atto che il rating di legalità rischia di trasformarsi in un’occasione perduta.

Nei mesi scorsi, già erano emersi commenti critici al rating di legalità, con accuse piuttosto circostanziate sul mutato (rispetto alle prime bozze) presupposto concettuale dello strumento: da leva per elevare la consapevolezza civica (e la responsabilità sociale) delle aziende, a sorta di fedina penale dell’azienda stessa. Col risultato di renderlo, sì, un premio a chi non incorre in reati o attività che vadano contro la legge. Ma con il parallelo risultato di ammettere che le imprese non rispettano le regole che dovrebbero rispettare (le leggi, appunto). E rispettare senza necessità di incentivo. Per giunta, le critiche evidenziavano come lo Stato finisca per delegare l’onere della verifica di tale rispetto a banche e pubbliche amministrazioni (cioè, i soggetti titolati a distribuire il “premio”: facilità di accesso a bandi o finanziamenti).

Tale impostazione viene, purtroppo, confermata dalla consultazione lanciata il 22 ottobre, peraltro lasciando un periodo brevissimo per inviare le proprie valutazioni (l’iniziativa chiude il 29 ottobre, domani). L’Antitrust ha sottoposto al pubblico la propria decisione di introdurre otto nuovi reati tra quelli che incidono sul rating di legalità.

Otto reati. Si allarga, dunque, lo spettro di osservazione della fedina penale. Mentre non viene avanzata nessuna riflessione operativa sul fronte della Csr, il vero ambito innovativo dello strumento. Anzi, il vero ambito con cui si sarebbe potuto parlare di incentivo all’innalzamento dell’impegno sociale “discrezionale” del soggetto azienda.

Altro punto in direzione sbagliata pare quello per cui «l’Autorità ha altresì disposto – si legge nel testo sottoposto a consultazione – che le richieste di rating devono essere inviate alla Commissione consultiva rating, istituita con delibera dell’Autorità del 17 aprile 2013 e composta da un rappresentante dell’Autorità, da un rappresentante del Ministero della Giustizia, da un rappresentante del Ministero dell’Interno e da un rappresentante di Confindustria».

È una commissione che capisce di giustizia e controllo dell’ordine. Ma dov’è chi si propone di innalzare il modello economico-sociale esistente?

 

 

 

L'occasione mancata del rating di legalità (perduta)

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