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La reazione militare dell’Egitto all’assassinio dei cristiani copti perpetrato dai fanatici dello Stato islamico in Libia mette in luce l’urgenza di un vasto coinvolgimento di Stati per affrontare alla radice una minaccia epocale nella sponda Sud del Mediterraneo.

Ad analizzarne con Formiche.net scenari e risvolti è il generale Carlo Jean, fra i più autorevoli studiosi di geopolitica oltre che professore di Studi strategici alla Link Campus University di Roma.

È legittima la risposta dell’Egitto contro l’Isis?

Distinguiamo tra legalità e legittimità. Dal punto di vista della prima era necessario ricorrere al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite al fine di ricevere l’imprimatur per portare a compimento l’azione di rappresaglia. La cui legittimità è fuori discussione, visto che si tratta di una reazione a un atto di barbarie contro civili innocenti.

Quali sono le basi dell’alleanza militare de facto che emerge nel teatro libico tra l’Egitto e il generale Haftar?

Haftar è una figura piuttosto discussa. A giudizio dell’intellettuale di origine libica Karim Mezran, già direttore del Centro studi americani, sembra essere stato legato alla Cia. Certamente è sostenuto dal governo di Tobruk, l’unica autorità del paese nordafricano riconosciuta dalla comunità internazionale. Al contrario del “Parlamento ombra” di Tripoli, controllato dalle forze integraliste islamiche della coalizione dell’Alba libica-Fajir, che ha condannato come “aggressione alla sovranità” i raid compiuti dai jet egiziani sulle postazioni dell’Isis a Derna.

Quali interessi ha l’Egitto in Libia?

Il Cairo nutre mire territoriali sulla Cirenaica, l’area più orientale del Paese nordafricano. È lì che si trova la massa di giacimenti libici petroliferi. Assumere il controllo di tali risorse può consentire al governo del generale Al-Sisi di finanziare un intervento armato. L’Egitto ha poi l’interesse a non fare giungere alle proprie frontiere gli islamisti libici armati con gli enormi arsenali di Muammar Gheddafi. L’obiettivo è evitare il contatto con gli integralisti locali nemici dell’uomo forte del Cairo.

La reazione egiziana contro l’Isis costituisce una critica indiretta agli Stati inerti nei confronti del Califfato islamico?

Non penso. Il governo del Cairo tenta di riconquistare la leadership del mondo arabo risalente a Nasser. Fautore del panarabismo laico e nazionalista rispetto al panislamismo propugnato dai Fratelli musulmani.

È necessario un intervento militare internazionale in Libia? E in quale cornice politico-diplomatica?

La questione è delicata. Nell’eventualità che il governo legittimo richieda l’aiuto internazionale armato per combattere le milizie jihadiste attive su un vasto territorio, si pone un problema giuridico complesso. Non necessariamente tale operazione deve ricevere la copertura delle Nazioni Unite. È sufficiente che venga realizzata con un accordo tra Egitto, Algeria e Emirati Arabi Uniti. Il cui ministro degli Esteri ha promesso pieno appoggio all’iniziativa del Cairo “per sradicare il terrorismo e la violenza diretta ai propri connazionali e infliggere una punizione esemplare agli autori del massacro”.

L’Italia può esercitare una leadership politica per un intervento internazionale?

Paesi amici dell’Egitto come il nostro possono fornire un appoggio rilevante in munizioni e risorse finanziarie. Non in armi. Peraltro è bene non marcare il carattere italiano di guida dell’operazione, che rischia di accendere reazioni nazionaliste di matrice anti-coloniale molto vive nel mondo libico. È meglio che il problema venga risolto dagli Stati arabi.

Come dovrebbe agire la comunità internazionale allora?

La soluzione ideale passa per una decisione della Lega Araba o dell’Unione Africana, che incarichino una pluralità di governi compresi quelli di Algeria e Tunisia per ristabilire con la forza la legalità internazionale in Libia. Il che vuole dire eliminare i radicali islamisti. Mentre ritengo molto difficile un’iniziativa delle Nazioni Unite.

Per quale ragione?

Nel mondo occidentale chi può agire sono esclusivamente gli Stati Uniti. Non si tratta di effettuare operazioni mirate come in Mali o nella Repubblica Centrafricana. Perché bisogna fronteggiare milizie super armate e addestrate. E l’azione non può passare per bombardamenti aerei, bensì per un impiego di forze di terra massicce.

L’amministrazione statunitense ha la volontà di intervenire in prima persona?

No. Washington farà svolgere il lavoro sul campo al Cairo e ad Algeri. Peraltro i Paesi europei non possiedono una grande quantità di forze terrestri in grado di controllare un territorio di vaste proporzioni come la Libia. Si tratta di andare a riprendere aree e città come Misurata e Tripoli, con migliaia di soldati. Non è uno scherzo. E nessuno andrebbe a conquistare con le armi pozzi petroliferi rischiando la risposta di una feroce guerriglia armata.

isis, carlo jean

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