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Di petrolio ce n’è per altri cento anni. Così dicono dalle parti dell’IEA a Parigi. E dunque c’è da crederci perché non c’è sottosuolo più sotterraneo di quello delle lobby che hanno in mano, a suo di report e statistiche, gli zig zag della geopolitica e dell’ordine mondiale. Dunque per altri cento anni ci saranno guerre e crisi, i punti del mondo caldi. Poi si vedrà. Se non altro con meno petrolio i punti saranno meno al caldo. Tant’é.
Ora, siccome l’ordine mondiale non si fa solo col pugno di ferro, con l’hard power, ma anche e soprattutto con il soft power, non c’è modo migliore per stare al mondo, se non altro quello ben vestito di quella parte di mondo benestante, che imporre usi e costumi. E quindi il retail.
Facciamo un esempio. In Svezia, in borsa, la prima azienda quotata, negli anni 80, era la Volvo. Tecnologia e affidabilità su due ruote. Minimalista e curata nelle forme, possente e sicura sull’asfalto bagnato e innevato delle steppe del Nord, pronta per aggredire i mercati così come gli asfalti di tutto il mondo. Con gli anni 2000, la prima azienda quotata fu la Ericsson. Ancora tecnologia, quella cellulare. Nata assieme alla Nokia laddove la necessità seppe farsi virtù e vantaggio competitivo. I paesi scandinavi hanno densità di popolazione molto bassa. Comunicare era sempre stato un problema. La Ericsson, che seppe cavalcare la bolla delle dot com, si liofilizzò poco tempo dopo sotto i colpi della mela morsicata che da Cupertino ha invaso ogni angolo di mondo. E così, oggi, la prima azienda quotata a Stoccolma è H&M. Azienda retail che veste i piccoli e i genitori di tutto il mondo con le sue linee di abbigliamento casual. Gli showrooom, sparsi in tutto il mondo, che fanno il paio con quelli Ikea, retail dell’arredamento che viene sempre da quelle parti, è un esempio di soft power. Perché quello che non deve sfuggire è che chi sceglie H&M non sceglie solo un pantalone o una felpa bella o che piace. Sceglie un’identità, quella che l’immaginario dei cittadini del mondo associano alla Svezia e ai paesi scandinavi in generale. Luoghi puliti, cool, socialmente responsabili, attenti all’ambiente. Qual è la morale di tutto ciò? Due osservazioni. La prima: a dispetto della vulgata che spesso si sente ripetere dalle nostre parti, tristi e lamentose, non è mai una tragedia quando un cosiddetto campione nazionale viene rilevato da una compagnia straniera. La Volvo oggi è cinese. Vale sempre il vecchio detto – Morto un papa se ne fa un altro –. La seconda: ci si può affermare nel mondo anche sapendo entrare nella vita di tutti i giorni di tutti i cittadini del mondo. I prodotti negli scaffali raccontano, infatti, l’identità e i valori del paese che li esporta. La politica di ogni paese ha quindi una enorme responsabilità verso il mondo delle imprese e degli uomini d’affari. Perché il prodotto sullo scaffale si porta dietro anche l’immagine del paese d’origine. E’ sempre la solita vecchia reputazione a fare la fortuna delle imprese e a quella concorre il sistema paese. Avere showroom in tutto il mondo, forse, vale più di tante cene diplomatiche, di consigli alle nazioni unite e di bollini Unesco.

Per essere buoni esportatori ci vuole una buona politica

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