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L’estensione alla Siria dei bombardamenti della scombinata coalizione “dei semi-volenterosi” a guida americana ha un impatto rilevante sullo scontro geopolitico e confessionale in corso in tutto il Medio Oriente. Le alleanze di oggi determineranno gli assetti geopolitici di domani.

COME CAMBIA LA STRATEGIA AMERICANA TRA IRAK E SIRIA

Finché i bombardamenti erano limitati all’Irak, per bloccare la travolgente avanzata delle forze del Califfato verso Baghdad e Arbil, le cose erano diverse. Si trattava di un’azione difensiva, legalizzata dalla richiesta di aiuto del governo iracheno, a cui non partecipavano altri Stati mediorientali, se non nuclei di Pasdaran iraniani. Con l’estensione dei bombardamenti alla Siria, da difensive le operazioni Usa sono divenute offensive. Coinvolgono poi la maggior parte degli Stati della regione; quindi, interessano i conflitti fra sunniti e sciiti e fra Arabia Saudita e Iran.

LE CONTRAPPOSIZIONI DEGLI INTERESSI

Tutti gli attori coinvolti – a partire dagli Usa – hanno interessi contrapposti, contraddittori fra loro, tra cui non è possibile un compromesso. Le scelte politico-strategiche che devono effettuare sono quindi difficili. Non si può infatti “salvare capra e cavoli”. A differenza di quanto si verifica normalmente, in una regione tanto complessa come il Medio Oriente, in cui i conflitti fra gli Stati si aggrovigliano a quelli con forze sub-nazionali e confessionali e quelli interni con guerre per procura di potenze esterne, i nemici dei nostri nemici non sono nostri amici. Degli amici non ci si può fidare. Dominano i sospetti. Insomma è un ginepraio, da cui è difficile uscire, ma da cui, in qualche modo, si dovrà, prima o poi, venire fuori.

DOMANDE SENZA RISPOSTA

Ma che cosa significa vittoria, non solo militare ma anche politica, che consenta una exit strategy? Si propongono gli Usa di modificare le frontiere o di confermare quelle fissate dopo il primo conflitto mondiale, magari rendendole più accettabili con ordinamenti federali e ampie autonomie per i vari gruppi? Come evitare di rafforzare Assad, quando si bombardano i gruppi di insorti più combattivi?

LE FORZE IN CAMPO IN IRAK

In Irak, la situazione è relativamente semplice, anche se molti sunniti considerano l’Isis come un alleato contro il regime sciita filo-iraniano. Sospettano che il nuovo governo non possa abbandonare la politica settaria seguita da al-Maliki. Anche gli Stati arabi, alleati degli Usa nella lotta contro l’Isis in Siria, non sanno decidersi se considerarlo un nemico o un alleato nella loro lotta contro la “mezzaluna sciita” e contro l’egemonia iraniana nel Golfo. L’amletico presidente americano e il suo inconcludente Segretario di Stato, si sono “incartati” dalle contraddizioni. In Irak devono collaborare con l’Iran, anche se non possono dichiararlo esplicitamente. D’altronde, i loro predecessori Bush jr. e Powell lo avevano fatto nell’attacco contro i Talebani afgani nell’autunno 2001.

IL GROVIGLIO SIRIANO

In Siria, la situazione è più aggrovigliata e complessa. Convincere che gli Usa vogliono distruggere l’Isis, ma non rafforzare Assad è peggio di “arrampicarsi sugli specchi”.  Gli insorti siriani qualificati come moderati sono deboli e divisi, inesistenti militarmente. Essi poi non sanno se dare priorità alla lotta contro Assad o a quella contro l’Isis. La stessa incertezza esiste certamente nel governo di Damasco. Inevitabilmente è tentato di concentrare le proprie forze contro gli insorti “moderati”, dato che all’ISIS e ai al-qaedisti, come il Gruppo Khorasan e il Fronte al-Nusra, ci stanno pensando gli americani e i loro alleati nella coalizione.

LE PREFERENZE ORIGINARIE DEGLI USA

Washington avrebbe preferito non allinearsi completamente con le monarchie del Golfo, sue tradizionali alleate, e l’Iran, che considera l’Isis una minaccia esistenziale contro i propri correligionari iracheni, siriani e libanesi. Gli Usa hanno dovuto scegliere le prime perché solo con l’appoggio sunnita possono battere l’Isis in Irak e anche trovare una soluzione per il dopoguerra in Siria. L’esercito governativo, nei cui ranghi combattono molti sunniti, mantiene la sua coesione. Non può essere sconfitto. Se lo fosse, si rischia che la Siria piombi in un caos di tipo libico, con il potere frammentato da parte delle milizie. Inoltre, Teheran ha rifiutato le “aperture” di Kerry che aveva proposto un coordinamento fra gli Usa e l’Iran in Siria, simile a quello attuato informalmente in Iraq. Forse, sperava anche di poter ricevere in Siria l’appoggio che aveva ricevuto da Teheran in Iraq nel dare  il colpo di grazia ad al-Maliki, inducendolo a non opporsi al nuovo governo.

LA DIFFIDENZA DELL’IRAN

L’Iran non si fida di quanto vogliono realmente fare gli americani con la loro strana coalizione anti-Isis, composta da Stati che sostenevano o, almeno, fino a poco tempo fa, consideravano con favore lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Teheran ha perciò condannato come illegale l’intervento americano in Siria, anche se l’inizio dei bombardamenti del 23 settembre gli era stato certamente comunicato in anticipo, come d’altronde era stato fatto, forse direttamente all’esercito o all’intelligence siriana, che già collabora con l’Occidente nell’identificazione e controllo dei al-qaedisti e dei foreign fighters. Lo dimostra il fatto che la Siria non ha protestato, più di quel tanto, per i bombardamenti e non ha fatto intervenire le forze della sua difesa aerea. Sembra anche che i siriani abbiano fornito agli americani le informazioni necessarie per attaccare il misterioso gruppo al-qaedista Khorasan, costituito da pakistani e afgani e legato al Fronte al-Nusra, braccio ufficiale di al-Qaeda in Siria.

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