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Adesso è finita davvero la guerra fredda: quasi tutti i giornali, dal New York Times alla Repubblica, hanno letto allo stesso modo la mossa di Barack Obama e senza dubbio hanno ragione. Con la crisi dei missili sovietici a Cuba nel 1962 stava per saltare l’equilibrio del terrore. Tuttavia, più che chiudere un’era, le relazioni diplomatiche tra Washington e l’Avana ne inaugurano una nuova.

La vera chiave di lettura per quel che sta accadendo è la citazione di José Martì pronunciata in spagnolo dal presidente Usa: “Todos somos americano”. Secondo alcuni evoca “Ich bin ein Berliner” la frase di John Fitzgerald Kennedy durante la sua visita a Berlino Ovest del 1963 che segna l’inasprirsi della sfida tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Ma questa volta il segno è diverso.

“Todos americanos” ricorda piuttosto l'”America agli americani”, parola d’ordine lanciata dal 5° presidente James Monroe nel 1823 che diede il via al grande moto di indipendenza che portò al crollo finale degli imperi europei, compreso l’impero spagnolo, ma anche alla sconfitta dei patetici tentativi neoimperiali di Massimiliano d’Asburgo (fratello di Francesco Giuseppe) in Messico nel 1867.

La dottrina Monroe ha segnato la storia degli Stati Uniti e in piena guerra fredda è diventata la bandiera contro i movimenti filo sovietici, quindi anche contro Fidel Castro. Oggi, invece, è il segnale di una fase in cui l’America cerca un comune sentire e una serie di legami profondi, persino una identità il cui collante linguistico può essere lo spagnolo, in via di diventare la prima lingua degli stessi Stati Uniti.

Il mondo si sta confusamente organizzando attorno ad alcuni centri di potenza: la Cina che ha recuperato il proprio ruolo in Asia, quello indicato dal suo stesso nome, il Regno di mezzo; l’Europa che cerca di restare insieme nonostante tutte le potenti spinte centrifughe che si sprigionano al suo interno; l’Australia che fa da cerniera; gli Stati Uniti come leader sempre più evidente delle Americhe; l’Arabia saudita o l’Iran (vedremo chi vince) nel mondo islamico; in attesa che una potenza aggregante e potenzialmente egemone nasca anche nel continente africano.

Obama evoca tutto ciò quando dice “Todos americano”, al di là della retorica che accarezza il pelo irsuto di un universo latino ancora in convulsione, dal quale sono emerse delle grandi realtà come il Brasile, paesi moderni ed efficienti come il Cile, o risorti dalle ceneri della guerra ai narcos come la Colombia, solo per fare alcuni esempi. Mentre lo stesso Centro America, continuo focolaio di caos, sta ritrovando il suo sentiero nella giungla.

Va sottolineato, in questo processo, il ruolo di un Papa americano, anzi latino-americano. Il Vaticano si è adoperato per far uscire Cuba dal proprio isolamento già con Giovanni Paolo II, impegnato fino in fondo a seppellire davvero la guerra fredda. Ma è chiaro che Papa Francesco (il gesuita argentino Bergoglio), imprime una spinta diversa, anch’essa nel senso di aprire una nuova era, quella che dalle vecchie Americhe costruisce una nuova America.

Mentre tutto ciò bolle in pentola, durante una trasmissione radiofonica, si è sentita una conduttrice di Rai Uno chiedere al suo ospite: “E adesso che cosa accadrà? L’Avana diventerà un’altra Miami?”. Forse aveva in mente la città di Miami vice o di Al Pacino-Scarface. Al di là dei miti cinematografici, la risposta vera è: magari! Se voleva intendere che finisce l’illusione della nuova Gerusalemme socialista nel mar dei Caraibi, con la quale ci hanno ossessionato giornalisti, ideologi, chiacchieroni di ogni genere e tipo, ebbene non c’è che da celebrare. Ma il nostro “magari” vale ancor più di fronte alla realtà (ignorata dalla candida conduttrice) di una città e un Paese poverissimi ridotti a paradiso sessuale, quindi a prostituirsi per un pugno di dollari a occidentali in bermuda e con la maglietta del Che.

Stefano Cingolani

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