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Riuscirà il Jobs Act, giunto nell’Aula di Palazzo Madama per il via libera definitivo, a creare nuove opportunità di lavoro e porre fine alla spaventosa crisi occupazionale del nostro paese? L’Italia potrà costruire una rete moderna ed equa di valorizzazione del capitale umano, ammortizzatori sociali attivi e non assistenziali, Flexsecurity, Welfare aziendale?

A questi interrogativi hanno tentato di rispondere i protagonisti del convegno “La riforma del lavoro nell’Italia che cambia”, promosso oggi presso la Pontificia Università Agostiniana di Roma dalla Confederazione italiana federazioni autonome – una galassia produttiva che comprende oltre 120mila imprese per un totale di 700mila persone coinvolte – e dal Fondo paritetico inter-professionale nazionale, costituito nel 2006 da CIFA e CONFSAL per finanziare la formazione continua dei lavoratori e dei manager.

L’esigenza di notevoli risorse per il reinserimento lavorativo

È il presidente delle due organizzazioni Andrea Cafà a mettere in rilievo luci e ombre del provvedimento governativo approvato dalla Camera.

A suo giudizio si tratta di un intervento che prefigura regole più adeguate alle trasformazioni intervenute nel mondo del lavoro. A partire dal contratto a tempo indeterminato con tutele crescenti per anzianità di servizio, “prezioso per le persone fino a oggi prive di garanzie occupazionali”.

E dalla più marcata flessibilità in entrata e uscita, “accompagnata da una rete efficace di ammortizzatori finalizzati al reinserimento professionale. Ma che richiede risorse adeguate per costruire un’agenzia nazionale del lavoro ricca di personale preparato nel territorio, e per adottare un voucher che ogni persona può spendere presso il centro per l’impiego più efficiente”.

Il Jobs Act produrrà frutti nel lungo periodo

Il pacchetto di iniziative promosso da Palazzo Chigi – rileva – non potrà creare nel breve termine nuovi posti di lavoro, ma produrrà buoni frutti nella fase di ripresa economica e di aumento degli investimenti produttivi.

“È necessario però ridurre e snellire il numero enorme di contratti collettivi di lavoro, che si sovrappongono ai livelli territoriali e aziendali”.

Mentre la realizzazione del Welfare aziendale nel tessuto di medie, piccole e micro imprese, passa ai suoi occhi per l’aggregazione di tante realtà produttive in grado di fornire le risorse adeguate grazie a un fondo inter-professionale comune.

Un nuovo umanesimo nell’economia

Tutte queste misure, però, non realizzeranno le loro potenzialità innovative senza un salto culturale.

A illustrarne il valore è l’economista dell’Università Cattolica “Sacro Cuore” e Bicocca di Milano Alessandra Smerilli: “La realtà produttiva oggi fatica a riconoscere il lavoro come frutto della dignità della persona – atto volontario di libertà e creatività con valenza spirituale – e la famiglia, ridotta a realtà che risparmia e consuma. E così il lavoro, esaltato ed elevato a misura di tutte le cose dalla cultura egemone, è svilito sempre più a funzione del profitto e delle rendite”.

Ne scaturisce una corsa sfrenata a comprare anche quando non vi sono le risorse sufficienti, incoraggiata dal predominio della finanza. E dei grandi capitali che non si accontenteranno di una riduzione del costo del lavoro per ritornare in Italia e in Europa. “L’unica via di uscita – rimarca la studiosa – è una nuova alleanza  tra mercato civile, famiglia e comunità. Fattori essenziali e ‘canali morali’, già prospettati nel Settecento dall’economista Antonio Genovesi, per alimentare fiducia condivisa e autentico sviluppo”.

Il mercato del lavoro resta diviso

È difficile prevedere se il Jobs Act del governo Renzi realizzerà obiettivi di tale respiro antropologico. Per ora, ricorda il parlamentare del Partito democratico e presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano, vi è un testo frutto di un “compromesso che all’inizio appariva una missione impossibile”. Protagonista della laboriosa e febbrile attività di correzione del progetto originario su cui “il premier voleva porre la fiducia”, il rappresentante della minoranza del Nazareno mantiene inalterate le riserve critiche.

A cominciare dall’emanazione, entro il termine del 2014, del primo decreto legislativo riguardante il contratto a tempo indeterminato con tutele crescenti. Rapporto, precisa l’ex ministro del Welfare, valido esclusivamente per le persone neo-assunte: “Altro che garanzie universali e superamento del regime di apartheid tra lavoratori privilegiati e non”.

Riguardo la nuova formulazione dell’Articolo 18 Damiano ritiene che l’onere della prova per i licenziamenti economici e disciplinari spetti all’imprenditore. E che l’entità degli indennizzi sostitutivi del reintegro nel posto di lavoro debba restare rilevante.

Flessibilità nella previdenza e riduzione dell’orario di lavoro

Ma ora, è la sua convinzione, il problema concerne la Legge di stabilità. Provvedimento che registra tre gravi pecche: “Mancano 400 milioni ai 3 miliardi e 300 milioni necessari per una copertura universale di chi resta privo di occupazione. Vengono eliminati dal 2015 i 7-8 miliardi di incentivi triennali previsti fino al 2014 per le assunzioni effettuate dalle aziende del Mezzogiorno. È introdotto un aggravio fiscale sui fondi pensione complementare”.

Le strade da intraprendere a suo avviso per un’inversione di rotta prevedono un regime di flessibilità, tramite premi e penalizzazioni, dell’età previdenziale: “Regole che dovrebbero coinvolgere le persone tra i 62 e 70 anni con 35 anni di anzianità lavorativa. Permettendo a chi vuole di lavorare oltre il limite dei 67 anni attualmente previsti per ricevere il trattamento pensionistico”.

E un “intervento europeo di redistribuzione del reddito e allargamento della platea degli occupati”. La ricetta del parlamentare del Pd rilancia con lievi modifiche un progetto caldeggiato dalle sinistre continentali negli anni Novanta: la riduzione dell’orario di lavoro, fiscalmente agevolata e con un leggero calo della retribuzione.

Dopo il Jobs Act avanti con la riduzione dell’orario di lavoro. Parla Cesare Damiano

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