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E’ da sempre, o perlomeno da quando Max Weber ha scritto il suo capolavoro sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, che le considerazioni di carattere economico chiamano in causa valutazioni di ordine religioso e perfino confessionale. L’accostamento non è di per sé sbagliato: la vita umana è un tutto, ed è una vita sempre individuale, fatta di spirito e materia, o, come meglio si direbbe, di anima e corpo.

Quello che nessuno si attenderebbe è che anche il neo presidente dell’Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi, stabilisse una relazione tra la cultura cattolica italiana e l’attitudine a evadere il fisco. Ecco le sue parole: “Siamo un Paese dove chi evade si aspetta poi l’assoluzione. La matrice cattolica di questo Paese spinge chi evade a credere che poi arriverà uno scudo o un condono”. Poi prosegue, asserendo che “se il cittadino che evade è convinto che la sanzione non arriverà, difficilmente si abituerà a rispettare le leggi”.

Naturalmente, il ragionamento chiama in causa specialmente il comportamento delle imprese le quali dimostrano, questa è la tesi centrale, una scarsa sensibilità per la legalità e un’eccessiva fiducia nella logica “cattolica” del perdono.

In realtà, l’accostamento, sebbene suggestivo, è totalmente privo di significato. In primo luogo perché stabilisce una generalizzazione dando valore a un luogo comune. E in secondo luogo perché non tiene conto in questo giudizio astratto sul costume degli italiani di un secondo elemento, il quale, non a caso, è analizzato in seguito da Orlandi, vale adire l’iniquità e la complessità del nostro sistema fiscale. Il presidente osserva appunto che “è necessario facilitare l’approccio, e la semplificazione è una delle nostre priorità”.

Ebbene, delle due l’una. O la causa dell’evasione è oggettivamente il sistema, e allora è bene risolvere il ginepraio prima di domandarsi perché cittadini e imprese si lasciano imbrigliare nei garbugli legali, oppure, invece, vi è una tendenza soggettiva delle persone a non pagare le tasse, quale che sia il carico delle imposte.

In realtà queste due tesi sono vere entrambe, ed entrambe presenti, ma non c’entrano nulla con la cultura cattolica e la fede cristiana.

Il grave errore di valutazione riguarda, in fin dei conti, esclusivamente il collegamento di tutto questo resoconto sociale allo spirito religioso. Anche perché, al contrario del sistema fiscale, la dottrina cattolica è molto chiara in merito. Sfogliando il Compendio del Catechismo, ci s’imbatte nella Terza parte sui Comandamenti, per altro principi validi anche per il Popolo Ebraico. Il Settimo (punti 503 e seguenti), in specie, recita: Non rubare.

La spiegazione che viene offerta è illuminante. Essa stabilisce la destinazione e distribuzione dei beni, nonché la proprietà privata e il rispetto delle persone, dei loro beni, della loro integrità. Ciò significa che non soltanto non è giusto trattenere come proprio quanto va oltre il lecito e il legittimo, ma è obbligatorio corrispondere agli altri, ossia alla società e allo Stato che ne è strumento, quanto è richiesto per il bene comune. Dunque, a meno di non dire che il Settimo Comandamento non è valido e il catechismo è un’opinione, pagare le tasse è obbligatorio per un cattolico.

Dopodiché, il principio etico di non rubare non si applica soltanto ai cittadini e ai loro beni di proprietà, ma anche allo Stato e alle istituzioni. Ciò significa che la dottrina sociale della Chiesa è contraria a ogni sistema economico che sacrifica i diritti fondamentali della persona in nome di esigenze collettive indebite, esagerate e troppo onerose: “Per questo rifiuta le ideologie associate nei tempi moderni al comunismo o alle forme atee e totalitarie di socialismo”.

Non solo, dunque, sono vietate esplicitamente le “frodi fiscali”, ma è condannato perentoriamente un sistema redistributivo che sottragga ai cittadini beni economici in misura superiore a quanto è logico possesso di ciascuno, perché frutto del lavoro, del sudore e del risparmio.

Sfatato ogni equivoco sulla dottrina cattolica, la quale non a caso non parla in questa parte di etica generale né di peccati e tanto meno di assoluzioni, riguardando questi ultimi gli aspetti intimi e personali di ciascuno, anche dei funzionari del fisco, nasce tuttavia un desiderio incontenibile di rivolgere una domanda al presidente Orlandi: perché, adempiendo i doveri del proprio Stato (anche questo un principio cattolico, anzi evangelico), ossia ai doveri morali che competono a chi dirige l’Agenzia delle entrate, il presidente non si sforza di far applicare al proprio interno il comandamento di non rubare? Sapendo e ammettendo che il sistema è farraginoso e iniquo, perché non tener conto appunto di questo valore cattolico e umano universale, minacciato dall’eccessivo carico di tasse, piuttosto che mettersi a sindacare l’etica di un sistema d’imprese ormai sull’orlo del fallimento?

Questo è il vero dilemma. In realtà, il non giudicare è un valore cristiano molto più importante, pieno di esperienza e di saggezza, che le condanne sociologiche degli altri, in nome poi di principi religiosi non perfettamente metabolizzati. Non sarà forse che fare questo è troppo cattolico perché sia facilmente adeguato a una società secolarizzata come quella in cui viviamo?

Agenzia delle Entrate, ora pure il fisco è anti cattolico?

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