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La Ferrari è ancora italiana? Assolutamente sì, risponderà John Philip Elkann: tutte le vetture (meno di 10 mila, assicura Sergio Marchionne) che si fregeranno del cavallino rampante usciranno da Maranello. Il quartier generale delle Corse non si muoverà dal sito simbolo di una delle poche eccellenze del made in Italy rimaste. Lo scorporo dell’azienda e successiva assegnazione dei titoli (salvo un 10% in vendita) agli azionisti Fca non sposta gli equilibri dell’azionariato: Ferrari, così come Fca, è saldamente nelle mani di Exor che, almeno per ora, è una holding italiana.

La Ferrari è meno italiana? Certo, nella misura in cui la nuova realtà azionaria del gruppo riflette una compagine societaria globale, in cui contano sempre di più i grandi investitori istituzionali internazionali. Il baricentro finanziario, per Ferrari come per Fca, è Wall Street.  Difficile che ci sia spazio per Piazza Affari, altrimenti non si spiegherebbe il perché nel comunicato aziendale si faccia riferimento ad “una Borsa europea” e non al mercato azionario italiano. Il 10 per cento offerto al mercato, del resto, finirà negli Usa o nei grandi fondi istituzionali o sovrani, difficile che le banche o le istituzioni di casa nostra impieghino le loro risorse in questa operazione.

Insomma – suona l’accusa – la galassia Agnelli ha mosso un altro passo fuori dall’orbita italiana, all’interno di una logica precisa. Al contrario, può replicare la difesa, Sergio Marchionne è riuscito per l’ennesima volta a far quadrare il cerchio rendendo credibile la scommessa di creare un polo italiano del lusso attorno all’ammiraglia di Maranello e Maserati.

Fiat Chrysler ha urgente bisogno di capitali per avviare il business plan presentato a Detroit nel maggio scorso che prevede di passare da 4,7 a 7,2 milioni di pezzi venduti entro il 2018 (data delle dimissioni di Marchionne). Per centrare questo risultato è necessario, secondo i piani, produrre 34 nuovi modelli, conquistare un Continente (l’Asia) a suon di Jeep, popolare America ed Europa di Alfa in grado di sfidare Bmw e Lexus. Il tutto, naturalmente, senza compromettere un equilibrio finanziario che regge su un equilibrio instabile.

Insomma, ci vogliono quattrini. La via maestra poteva essere un aumento di capitale, salvo che i mercati non sono ben disposti, di questi tempi, a puntare sull’auto, titolo ciclico per eccellenza. Su Fca, in particolare, le incognite non mancano: il mercato più forte, il Brasile, è in frenata; Chrysler cresce, ma a scapito della redditività; l’Europa trotta ma non decolla.

Insomma, l’unico jolly è il lusso. E Marchionne l’ha giocato da par suo, sorprendendo il mercato. Dalla Ferrari e dal convertendo, agevolato dalla prospettiva di acquistare quote del Cavallino, arriveranno almeno 4 miliardi, quel che ci vuole per dare l’avvio al piano Alfa e d accelerare gli investimenti cinesi di Jeep. Oltre ad altre emergenze. Mister Marchionne, alla vigilia del board, ha trovato tempo e modo per cacciare su due piedi il responsabile qualità del gruppo: Fiat e Chrysler restano in fondo alla classifica delle riviste specializzate Usa.

Speriamo che una parte dei quattrini in arrivo servano a migliorare il prodotto. Altrimenti, come ci insegnano le lezioni del passato, non si va lontano.

Ferrari, ecco i veri progetti di Marchionne

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