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Pubblichiamo un estratto dal report “La fragilità irachena di fronte alla minaccia di ISIS” realizzato da Gabriele Iacovino per il Centro Studi Internazionali

Attualmente la responsabilità della sicurezza nella Provincia di Diyala è nella mani di Hadi al-Ameri, Ministro dei Trasporti e leader del movimento Badr, il quale coordina le azioni dei suoi miliziani e dell’Esercito iracheno. Sono attive nella zona anche alcune milizie Peshmerga, soprattutto nei pressi dell’area di Jalawla e Saadia. Inoltre, nonostante le smentite da parte del Ministero degli Esteri di Teheran, a Diyala dovrebbero essere presenti circa 500 esponenti delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane. Nonostante non vi sia stata ancora una conferma visiva di questa presenza, si può ragionevolmente presumere che la presenza iraniana a supporto delle forze di sicurezza irachene non si fermi qui.

LA FIGURA DI MALIKI

A quanto pare nei giorni scorsi dovrebbero essere arrivati a Baghdad due battaglioni della Forza Qods, il braccio armato all’estero di Teheran, i cui sforzi a protezione sia della capitale irachena sia di Karbala e Najaf, altri due luoghi sacri per lo sciismo, dovrebbero essere coordinati direttamente dal Generale Suleimani, comandante della Forza Qods, anch’egli presente a Baghdad.
In questo complesso panorama a uscire profondamente ridimensionata è la figura di Maliki. All’indomani delle elezioni, grazie alla sua netta affermazione, il Primo Ministro si era posto nuovamente come il monopolizzatore della scena politica irachena e, nonostante la fortissima instabilità del Paese e il profondo malcontento della popolazione, si presentava come un leader molto poco propenso al dialogo.

CAOS IMPERANTE

Con gli ultimi sviluppi, Maliki si è dimostrato non più in grado di gestire da solo il Paese. La rapida ritirata delle forze di sicurezza da Mosul e Tikrit hanno svelato in tutto il suo isolamento un Primo Ministro che a causa delle politiche personalistiche attuate non è riuscito a mantenere coeso neanche il fronte sciita. Solo Sistani, invece, grazie al suo annuncio, si è dimostrato capace di riappianare le numerose divergente tra le varie realtà sciite in nome di una lotta contro un nemico comune, ISIS, che al momento sembra mettere in gioco la stessa integrità del Paese. Qualora l’intervento delle milizie sciite riuscisse realmente a supportare l’Esercito iracheno nella lotta contro la milizia jihadista, Maliki dovrebbe prendere atto di non poter più gestire il potere in maniera personalistica, ma di avere la necessità di includere maggiormente anche le altre realtà sciite. Questo potrebbe essere un dato importante per la definizione dei nuovi equilibri interni allo stesso universo sciita iracheno.

LE OPZIONI DI OBAMA

Se questo scenario si concretizzasse, anche l’influenza iraniana sul Paese sarebbe maggiore. Maliki non potrebbe giocare più il ruolo di un leader nazionalista equidistante tra le varie influenze espresse su Baghdad (principalmente quella iraniana, da una parte, e quella statunitense, dall’altra). Un Iraq sopravvissuto all’avanzata di ISIS anche grazie agli uomini di Suleimani andrebbe a spostare non poco l’ago della bilancia di numerose dinamiche regionali. Anche perché, d’altra parte, le opzioni in mano ad Obama al momento sembrano realmente poche. Nonostante il Presidente degli Stati Uniti abbia più volte parlato della necessità di tenere aperte tutte le opzioni (che, avendo escluso pubblicamente l’eventualità di una nuova presenza sul territorio iracheno di soldati americani, si restringono ad un’azione aerea in supporto di Baghdad), un aiuto da parte di Washington all’Iraq, le cui forze di sicurezza sono già supportate sul campo dall’Iran, quello stesso Iran che tanto si sta spendendo in aiuto del regime di Assad osteggiato dagli Stati Uniti, comporterebbe non pochi “disagi” politici per Washington.

IL RUOLO DELLA NATO

In queste dinamiche rientra inoltre la NATO, anche alla luce del fatto che uno dei suoi membri, la Turchia, è stato direttamente tirato in ballo dagli avvenimenti iracheni. Infatti, i miliziani di ISIS hanno rapito il console turco a Mosul insieme ad altre 49 persone, tra funzionari e forze di sicurezza del consolato. Il Premier turco Erdogan, messo in ulteriore difficoltà sul fronte interno da questa ulteriore battuta d’arresto nella propria politica regionale, per ora non ha ancora rilasciato dichiarazioni di tono interventista. Tuttavia, al momento, la precarietà politica su cui regge l’esecutivo turco, a causa del forte malcontento della popolazione, e il fatto che gli avvenimenti iracheni vanno a toccare in profondità gli equilibri anche nei confronti del Governo Regionale Curdo, rispetto al quale Erdogan, nonostante un dialogo avviato, non vorrebbe mai porsi in una situazione di difficoltà e debolezza, fanno sì che l’opzione di un’azione turca non sia del tutto da escludere.

FORTE RISCHIO

Il rischio più forte per l’Iraq è quello di entrare nuovamente in una spirale di violenze alimentata dalle divisioni etniche e settarie. Il fatto che i miliziani di ISIS, nelle regioni ora controllate, abbiano cominciato a giustiziare numerose persone, quasi sicuramente in stragrande maggioranza sciiti, non fa altro che alimentare le paure di una nuova guerra civile. Qualora i jihadisti prendessero con più veemenza di mira i luoghi sacri per gli sciiti, si potrebbe verificare un nuovo sanguinoso scontro che, in caso di escalation, potrebbe non solo coinvolgere le regioni ad oggi interessate dall’avanzata di ISIS, ma tutto il Paese. Una lotta tra sunniti e sciiti che inevitabilmente negli ultimi anni è stata anche alimentata dalle politiche di Maliki, per troppo tempo incentrate solo al rafforzamento del potere nelle proprie mani e alla predilezione di una parte della comunità sciita a lui fedele.

UN PAESE DIVISO?

Al momento, dunque, qualsiasi considerazione sull’ipotetico futuro scenario iracheno non può escludere la possibilità di una divisione del Paese in tre zone di influenza: una settentrionale curda, una meridionale sciita e una orientale sunnita, preda dell’azione trasversale di ISIS in continuità con le operazioni effettuate in Siria.

Incognite e scenari nel futuro dell'Irak

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