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Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali

Descrivere gli scontri in atto a Tripoli e Bengasi come una battaglia tra buoni – non-islamisti, laici e secolari – e cattivi – islamisti, radicali e terroristi – è fuorviante e in gran parte scorretto. Quella in corso è una guerra di potere tra gruppi aventi interessi locali sostenuti spesso da attori stranieri.

TRIPOLI, MISURATA E BENGASI
La rivalità principale è tra le milizie della città di Zintan e in particolare quelle dislocate a Tripoli, come il Qaqaa e il Sawaiq, politicamente vicine alla fazione politica dell’ex primo ministro Mahmoud Jibril – e quindi alla componente anti-islamista del Congresso nazionale generale (Gnc) – e le milizie della città di Misurata, a loro volta genericamente associabili alle forze politiche più vicine alla componente islamista.

La rivalità tra questi due gruppi risale ai tempi della rivoluzione contro il regime di Gheddafi ed è stata rafforzata dalla politica di appeasement praticata dai governi libici che si sono succeduti negli ultimi tre anni. Questi hanno distribuito generosamente risorse alle più disparate milizie, ottenendone l’acquiescenza, ma sicuramente non la lealtà. Tutti i tentativi finora esercitati dai politici per trovare un accordo tra questi due attori sono falliti.

A questa complessa situazione nell’ovest del paese, negli ultimi due anni si è aggiunta l’instabilità crescente e il crollo dell’ordine pubblico nell’est del paese. Qui, in particolare nella zona di Bengasi, le deboli forze di sicurezza dello stato libico sono state ripetutamente attaccate da gruppi che spaziano dalle semplici organizzazioni criminali alle più strutturate cellule jihadiste.

Tutti questi gruppi, pur essendo diversi per nascita, formazione e struttura, hanno obiettivi comuni: destabilizzare le autorità nazionali e sfaldare le istituzioni, in modo da poter prosperare nello stato di anarchia sempre più evidente. Nell’ultimo anno, l’occupazione di importanti pozzi di petrolio nell’est del paese da parte di gruppi armati guidati dall’autoproclamatosi leader federalista Ibrahim Jadran ha contribuito ad aumentare la confusione e la paralisi dell’apparato statale.

KHALIFAH HAFTAR
Sullo sfondo di questo quadro è venuto a inserirsi il generale Khalifah Haftar. Controverso e ambiguo, fu il comandante dell’esercito di Ghaddafi nella guerra contro il Ciad degli anni ‘80. Secondo voci diffuse mai confermate, Haftar sarebbe l’artefice di massacri contro le truppe ciadiane che avrebbero coinvolto anche i suoi soldati.

Catturato nell’86 e abbandonato dal regime del colonello, Haftar disertò dall’armata libica e, assieme ad alcuni dei suoi soldati più fedeli, costituì, con appoggio statunitense, quella che divenne l’ala militare del principale partito politico di opposizione, il Fronte Nazionale per la Salvezza della Libia. Nato con lo scopo di condurre attacchi ai confini del Ciad al fine di destabilizzare il regime libico, questo esercito non si distinse in particolari azioni e venne presto disciolto. Haftar fu trasferito negli Stati Uniti dove, con la collaborazione e l’aiuto della Cia, ha vissuto in esilio gli ultimi 20 anni.

Vantando una popolarità tra i militari libici in realtà mai dimostrata, allo scoppio della rivoluzione del 2011 Haftar rientrò a Bengasi con il dichiarato scopo di assumere il comando delle truppe della rivoluzione. Il Consiglio nazionale transitorio – l’autorità di governo delle forze rivoluzionarie – gli preferì tuttavia il generale Abdul-Fatah Younis, a cui affiancò come vice comandante Omar Hariri, lasciando ad Haftar un umiliante terzo posto. L’approvazione, nel 2013, della legge dell’isolamento politico sembrò inoltre porre fine a ogni ulteriore aspirazione politica per Haftar.

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Karim Mezran è Senior Fellow presso il Middle East Policy Council di Washington ed è docente di studi mediorientali presso la Johns Hopkins University a Bologna e Washington.

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