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Tra le cose insensate di questo nostro assai amato però insensato Paese c’è oggi anche la contrapposizione tra riforme istituzionali e riforme economiche su cui indulge anche quel personaggio che mi era assai simpatico ma che ora sta diventando patetico per la sua incapacità di elaborare la propria sconfitta strategica: Pierluigi Bersani.

Quali mai riforme economiche si potranno fare senza un governo in grado di decidere, senza un Parlamento in grado di lavorare efficacemente e senza una burocrazia capace di implementare nella sua autonomia le decisioni della politica? Quale riforma della giustizia si potrà avere per contare su una maggiore e più veloce certezza del diritto (e sull’economia italiana – dal caso Romeo a Fastweb, dall’Ilva alla Finmeccanica, dall’Eni a Telecom Italia – incombe il disastro di quella “penale” e non solo di quella civile) se una politica disarmata si dovrà scontrare con una corporazione dotata in settori decisivi persino di solidi legami internazionali?

La riforma del Senato è un po’ una schifezzuola ma va nel senso oggi indispensabile: spezzare il fronte antiformista e procedere nell’innovazione (che non è certo quello indicato dai nostri vongollisti – gollisti alle vongole – che hanno sostituito nei loro programmi il preferenzialismo al presidenzialismo e la soglia della governabilità con quella delle presenze delle nomenklature). Il voto sul Senato è dunque l’unica base possibile anche per affrontare le scelte che chiede Mario Draghi: una rapida legge sul lavoro, una efficiente giustizia civile e una semplificazione della burocrazia (senza gli strumenti adatti non si fa mai alcunché: anche il pane che “il popolo vuole” lo possono dare solo istituzioni efficienti non certo aggregazioni di nomenklature).

Quanto al trasferimento di sovranità questo è un problema che riguarda, più che l’Italia, chi  vuole che la propria Corte costituzionale domini la Bce e chi si oppone al trattato per un mercato transatlantico (che va perseguito peraltro con caparbia, magari trattando anche regole che non penalizzino così brutalmente la nostra industria nazionale come quelle che stanno definendosi in questi mesi). Da parte sua Roma ha un problema di recupero di sovranità nazionale più che di cederne nuovi pezzi: così dopo ben due governi  “commissariati” come sono stati quelli di Mario Monti ed Enrico Letta.

E’ evidente che la Spagna va molto meglio di noi perché ha un capo dello Stato che protegge la sua sovranità nazionale e ha un sistema bipolare ancora efficace del quale fanno parte anche i franchisti entrati nel Partito popolare grazie a uno spirito nazionale pure dei socialisti ben superiore a quello di chi vorrebbe emarginare dal gioco politico italiano persino Matteo Salvini.

Madrid ma anche Atene vanno meglio di Roma perché quando è scoppiata la crisi economica sono andate rapidamente al voto e hanno fondato su questa scelta la loro politica di riforme: perché hanno recuperato sovranità popolare invece di cederla.

Considerate la Grecia: quando i tedeschi vietano nell’autunno del 2011 a George Papandreu di tenere un referendum sull’euro, portando così al suicidio i socialisti del Pasok, nasce un governo commissariato con un simil Monti, Lucas Papademos che però porta al voto nella primavera successiva non resistendo insensatamente al governo per un anno e mezzo come l’ex rettore della Bocconi. Quando poi il voto non dà le basi per un governo di responsabilità nazionale, la maggioranza parlamentare greca relativa ben lungi dall’arruolare una manciata di ministerialisti per reggere a ogni costo, torna al voto dopo tre mesi e il loro Renzi, Antonis Samaras di Nea demokratia, regge un esecutivo abbastanza efficiente sulla base del voto popolare non di trame che si fanno e disfano un giorno dopo l’altro da parte di vertici dello stato indecisi a molto, corpi dello Stato largamente separati dalle istituzioni elettive, un establishment senza fiato, élite sprezzanti del popolo e un sistema di influenze straniere pervasivo in un modo – finite le classiche colonie – con rare analogie nel resto del mondo.

Proprio i citati buoni esempi greco e spagnolo ci spiegano che nessun risultato può essere raggiunto senza una vera base di sovranità nazionale (che in una democrazia coincide con quella popolare). Altro che teorici del “vincolo esterno”.

Ma poi, si dirà, c’è il peso dell’Europa: però del “peso” dell’Europa dobbiamo essere protagonisti non puri “oggetti subalterni”. Ed esserne protagonisti significa essere autonomi dalle forze che eventualmente volessero costruire i destini del nostro Continente su un asse Berlino-Pechino.

A cento anni dalla Prima guerra mondiale la nostra prima esigenza è evitare governi Salandra che ci portino in conflitti (sia pure prevalentemente economici: ci si augura) che non corrispondono ai nostri interessi nazionali. Renzi sarà addirittura più pasticcione di Giovanni Giolitti (peraltro  grandissimo politico) ma attualmente è l’uomo che sta tentando di allargare e consolidare la nostra sovranità nazionale e in questo senso va aiutato, schierandosi contro qualsiasi voglia di “radiose giornate di maggio”. Naturalmente il modo necessario per farlo è consolidando quel bipolarismo nelle alternative di governo che è l’unica base concreta per far funzionare una democrazia moderna anche dal basso e non solo dall’alto.

Ecco le vere partite che si giocano tra Draghi, Merkel e Renzi

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