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L’indipendenza energetica degli Stati Uniti è presunta o reale? La domanda è entrata di prepotenza nel dibattito economico dopo la crisi ucraina, che ha convinto Barack Obama ad aprire all’esportazione del gas di scisto oltre i confini nordamericani, con l’obiettivo di spuntare l’arma del ricatto energetico sfoderata dal Cremlino.
Conveniente o no, almeno nel breve periodo, lo shale gas sembra però essere centrale nei piani delle grandi aziende del settore come Enel, che ieri ha annunciato un accordo per importare gas liquefatto dagli Usa.

LA MOSSA DI ENEL
La sua controllata spagnola Endesa, che ha una presenza importante in America Latina, ha firmato un contratto ventennale (estendibile per altri dieci anni) con il gruppo americano Cheniere Energy, impegnato in nuovi campi in Texas, per la fornitura di gas estratto dagli scisti argillosi. “La forniturascrive Francesca Gerosa su Milano Finanza -, pari a 1,5 milioni di tonnellate l’anno, dovrebbe partire nel 2018, con gas rigassificato in Spagna. Cheniere è l’unica società Usa ad aver ottenuto la licenza per esportare lo shale gas“.

FONTI DIVERSE, PREZZO MINORE
Questa intesa – prosegue il quotidiano finanziario diretto da Pierluigi Magnaschi – consentirà a Enel “non solo di diversificare le fonti diminuendo la dipendenza dalle importazioni russe ma anche probabilmente di spuntare prezzi migliori“. Anche se, evidenzia Equita, “i costi di esportazione” saranno chiari solo “una volta ultimate le esplorazioni in Texas“.

I DUBBI DEGLI ANALISTI
Ma non tutti si fidano della presunta rivoluzione energetica a stelle e strisce. Su Panorama, il direttore di PartnerN1, Evgeny Utkin, sostiene che nonostante le promesse di Obama arriverà da noi solo tra due anni e nel frattempo quello russo continuerà a essere fondamentale. Mentre il Corriere della Sera ha recentemente pubblicato l’anticipazione di un’inchiesta di Report sullo shale gas. Secondo alcuni analisti americani il gas di scisto, più che un’alternativa sarebbe “una bolla pronta a esplodere”.

IL NODO GEOPOLITICO
Impiantare un pozzo per lo shale gas – scrive il giornale diretto da Ferruccio de Bortoli – “arriva a costare tra i 4 e 6 milioni di dollari, contro gli ottocentomila di un pozzo tradizionale, ma è soprattutto il rendimento a dimostrarsi deludente. I pozzi rendono il massimo della loro produzione nel primo anno di vita e poi decadono fino a non produrre quasi nulla quattro anni dopo”. Il futuro, dunque, potrebbe essere molto meno sexy del previsto, a meno che, sottolinea maliziosamente il quotidiano, non ci sia “un grande adeguamento economico del prezzo del gas di scisto attraverso esportazioni in Paesi pronti a pagarlo di più“. Come un’Europa assetata di energia e ai ferri corti con la Russia, ad esempio.

LE SCELTE DELL’ITALIA
L’invasione della Crimea, infatti, – ha sottolineato Francesco Bei su Repubblica – “ha fornito il destro a Obama per tornare alla carica sul tema dell’eccessiva dipendenza energetica europea (e italiana) dal gas russo“. Un concetto ribadito l’altro ieri anche dal primo ministro britannico David Cameron durante la visita a Londra del presidente del Consiglio Matteo Renzi, in vista del G7 dell’Energia che si terrà proprio a Roma. Gli americani, tra rinnovabili e shale gas, ormai sono diventati un Paese esportatore. E si propongono per sostituire nel tempo i contratti Gazprom. È una partita di lungo periodo – spiega la testata diretta da Ezio Mauro -, ma in vista del rinnovo dei vertici Eni ed anche di Enel — in scadenza ad aprile — il premier “dovrà decidere se cambiare strada ” – voltando lo sguardo verso l’altra sponda dell’Atlantico – “oppure restare, con i vecchi manager, sulle scelte di sempre” e quindi continuare il rapporto privilegiato con le risorse energetiche provenienti da est.

Perché anche Enel punta sullo shale gas. Bolla o rivoluzione?

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