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Gli attacchi chirurgici degli Usa e dell’Uk hanno creato imbarazzo, non solo nell’Ue incapace di un’incisiva politica comune, ma soprattutto in Italia. Il nostro Paese da tempo rivendica un ruolo centrale nel “Mediterraneo allargato”. È stato “gentilmente” informato dell’attacco, ma – almeno nella versione ufficiale – nessuno ha chiesto la sua partecipazione. Questo è di per sé imbarazzante, anche perché il nostro Paese è il più danneggiato dagli intralci alla navigazione nel Mar Rosso. Inoltre, aveva aderito il 3 gennaio scorso alla Casa Bianca – seppure con qualche “distinguo” – all’iniziativa americana “Prosperity Guardian”. Essa prevedeva la costituzione di una Maritime Force” per proteggere i mercantili dagli attacchi Houthi. Protezione implica anche misure attive, cioè attacchi contro le basi di lancio. Solo i “gonzi” possono sostenere che ai poliziotti che cercano di catturare i mafiosi vada dato solo il giubbotto antiproiettile e tolta la pistola.

Gli Houthi – chiamati anche Ansarallah o “Partigiani di Allah” – appartengono in gran parte a una setta sciita yemenita (circa il 15% è sunnita). Sono anti-americani, anti-sauditi e anti-israeliani e fanno parte – con Hamas, Hezbollah e Iran – del cosiddetto “Asse di Resistenza” che vuole eliminare Israele. Taluni mettono in dubbio la possibilità di Teheran di determinarne il comportamento, specie dopo la pace fra Iran e Arabia Saudita, sponsorizzata due anni fa dalla Cina. Gli Houthi non servirebbero più a Teheran nel suo confronto con Riad. È di certo sui legami con l’Iran – che mantiene nella crisi “Israele-Hamas” un atteggiamento alquanto cauto – che Biden (anche nella recente telefonata ai vertici iraniani) cerca di convincere gli Houthi a cessare gli attacchi ai mercantili nel Mar Rosso.

I poco più di 12 milioni di Houthi combattono dal 2014 per fare secessione dallo Yemen di cui occupano la montuosa parte settentrionale e varie centinaia di km di coste sul Bab-el-Mandeb e il Mar Rosso. Affermano di attaccare le navi dirette in Israele, anche per unificare attorno a un’ideologia condivisa l’opinione pubblica delle loro numerose tribù, frammentata dalla scomparsa della minaccia saudita. Non “molleranno” facilmente. Non si lasceranno impressionare da qualche bombardamento, specie se rimane limitato a qualche obiettivo militare. L’escalation non li spaventa, anche perché Biden – criticato per aver impegnato gli Usa in un’impresa a favore quasi esclusivo dell’Europa – ha scartato un attacco diretto al territorio Houthi. Ha escluso quindi un’escalation.

L’Occidente ha perso la cultura della “politica delle cannoniere” che l’aveva reso padrone dei suoi destini. Può essere ricattato da bande di banditi, che – a parte i vantaggi che ne traggono – certamente si divertono. L’Europa non sa fare altro che “piccolo cabotaggio”. Sfoga la sua impotenza invocando la de-escalation e la pace. Per fortuna non ha criticato gli Usa per essere intervenuti a difendere i suoi interessi.  L’ombra minacciosa di una nuova presidenza Trump sta frenando i commentatori più masochisti! Eppure, la chiusura di Suez sarebbe disastrosa per la nostra economia. Da esso transita il 15% del commercio marittimo mondiale, ma il 40% di quello italiano. A parte i maggiori costi di trasporto, i nostri porti sarebbero penalizzati rispetto a quelli del Nord Europa. Per riportare la situazione alla normalità non sarebbe sufficiente una riduzione delle capacità degli Houthi di colpire i mercantili. Tale capacità va eliminata del tutto. Non può essere fatto né con concessioni, sorrisi e fiori. Può essere fatto solo con la forza. Finora ci siamo – a parer mio vergognosamente – arrampicati sugli specchi” per giustificare la nostra inazione. Non possiamo – per semplici ragioni di dignità nazionale – rifugiarci dietro “Mamma America”, in attesa di dover intervenire “a furor di popolo”, qualora vengano uccisi marinai italiani o gli aumenti dei prezzi energetici divengano insopportabili.

Del comportamento italiano, di quanto non fatto e anche di quanto detto, non c’è da essere orgogliosi. Per giustificare la mancata partecipazione e il tiepido sostegno ai bombardamenti chirurgici anglo-americani su obiettivi militari dello Yemen, ci siamo nascosti dietro successive “foglie di fico”. Si sono invocate: la mancanza di una decisione comune europea; che siamo stati avvisati degli attacchi con un anticipo troppo ridotto per coinvolgere il Parlamento; che nessuno ci ha chiesto di partecipare agli attacchi; e ,“dulcis in fundo”, che l’Italia lavora per la de-escalation, beninteso senza precisare come, con quali interlocutori, dando che cosa in cambio alla cessazione degli attacchi ai mercantili. Tutte queste giustificazioni sono “debolucce”, quando non risibili.

La mancanza di una posizione comune europea non ha impedito a taluni Paesi dell’Ue di sostenere l’intervento. Dopo l’accordo del 3 gennaio e i mancati veti russo e cinese alla condanna degli attacchi Houthi era evidente che gli Usa avrebbero bombardato le basi di lancio delle armi antinave. È prevedibile che in sede Ue non verrà presa alcuna seria decisione. In attesa di tempi migliori dovremmo, quindi, sostenere un intervento Nato, senza le fini elucubrazioni di farlo in modo autonomo, ad esempio come prolungamento dell’operazione anti-pirateria Atalanta, le cui regole d’ingaggio escludono attacchi a terra.

Per carità di Patria non approfondiamo il tema de-escalation del conflitto. Nessuno, neppure l’Iran, la vuole. Gli Houthi non minacciano i mercantili solo per Hamas, ma per ragioni interne: per accreditarsi nel mondo arabo, a “meriti islamici anti-israeliani” ed evitare di essere schiacciati dai sunniti che sostengono contro la loro secessione il legittimo regime di Aden. Che cosa si possa mediare al riguardo è veramente un mistero, malgrado lo spazio di manovra forse esistente per i minori legami fra gli Houthi e Teheran, a cui si è prima accennato. A parer mio, l’unica cosa saggia che possiamo per ora fare – in attesa di chiarirci le idee o di reagire all’affondamento di una nostra nave – è di applaudire all’iniziativa Usa-Uk, sperando che le loro opinioni pubbliche interne non impongano ai rispettivi governi di sospendere un’azione in cui i costi sono loro e i vantaggi dell’Ue.

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