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La Cina ha un problema, o meglio, tanti problemi. Ma questo è forse il più urgente, perché riguarda direttamente l’economia di tutti i giorni, la vita delle persone e le loro scelte future. Il fatto è che nel Dragone non si consuma più come una volta. Se c’è stato un carburante per la crescita forsennata e, a tratti, sbalorditiva, a cui Pechino ha abituato il mondo negli ultimi 30 anni, sono i consumi. Più i cinesi compravano, più l’economia tirava. Ora però qualcosa si è rotto e non sarà facile ricomporlo.

Se il popolo non compra, i prezzi si deprimono e la crescita si arresta. E gli ultimi dati che proprio dalla Cina arrivano, dicono esattamente questo. E cioè che l’indice generale dei prezzi a ottobre ha fatto segnare un calo dello 0,2% su base annua, dando i presupposti agli analisti per parlare apertamente di “ritorno in deflazione” della Cina. Tutto questo, nemmeno a dirlo, è l’anticamera della recessione. Non sarà facile spiegarlo al governo, che proprio nelle scorse settimane ha incassato uno scatto del Pil del 4,9%, nel terzo trimestre.

Tornando alla depressione dei prezzi in Cina, la dinamica di debolezza, riferita dall’ufficio di statistica cinese e più marcata del previsto, trova ulteriori conferme anche sui prezzi alla produzione dell’industria, che sempre a ottobre hanno registrato il 13esimo mese consecutivo di calo, pari al 2,6% su base annua, in questo caso però leggermente meno accentuato delle previsioni. Tuttavia alcuni analisti sottolineano come sarebbe più corretto utilizzare il termine “disinflazione”, perché in realtà la deflazione è un fenomeno più ampio che si verifica quando una protratta fase di calo dei prezzi finisce per modificare l’atteggiamento di consumo della popolazione, portando a procrastinare molti acquisti nella prospettiva di pagare meno, in futuro, vari beni. Insomma, in Cina al momento si sta semplicemente indebolendo la dinamica dei prezzi e il dato di ottobre risente di un netto calo della carne di maiale, molto rilevante per i consumi nell’economia del Dragone.

E qui si arriva al punto, perché il consumo di carne di maiale è nella sostanza la pietra angolare dell’andamento dei prezzi in Cina. Il costo sullo scaffale della carne suina è diminuito del 40% rispetto al 2022. Il calo potrebbe riportare il Paese in deflazione (dopo il -0,3% dei prezzi al consumo registrato a luglio), visto che la carne di maiale incide pesantemente sull’indice ufficiale dei prezzi al consumo della Cina. “Sembra che l’inflazione al consumo tornerà negativa a ottobre, e la ragione principale sembra essere stata un calo dell’inflazione alimentare causato dal calo dei prezzi della carne suina”, aveva dichiarato al Financial Times Julian Evans-Pritchard, economista senior di Capital Economics.

Ora, il Dragone è il più grande produttore di carne di maiale al mondo e, da solo, ne consuma 50 milioni di tonnellate all’anno, circa la metà di tutta quella prodotta a livello globale. I prezzi di questa risorsa rappresentano un indicatore importante dell’inflazione nel Paese e seguono da tempo un ciclo di espansione e contrazione. Questo fenomeno è dovuto anche al fatto che il governo cinese interviene sul mercato, sia creando delle riserve strategiche di carne suina congelata da mettere in commercio per calmierare i pezzi, sia acquistando grandi quantitativi di carne quando la richiesta è scarsa e i prezzi scendono troppo.

Questo andamento altalenante si è verificato negli ultimi mesi: in risposta agli acquisti guidati dal governo, infatti, il costo della carne suina è tornato a salire a luglio. Nei mesi successivi, però, c’è stato un nuovo calo a causa della scarsa domanda da parte dei consumatori. Tutto, dunque, torna e il cerchio si chiude. I cinesi non consumano come dovrebbero, deprimendo l’economia e allontanando gli investitori.

Tutto questo mentre, fronte internazionale, con oltre 1.300 miliardi di dollari di prestiti prestati ai Paesi a basso e medio reddito, la Cina è diventata il più grande “esattore” di debiti globale. È quanto racconta il nuovo report di AidData, società dell’università statunitense William & Mary, che fa un bilancio della Belt and Road.

Attraverso un’analisi sui 20mila progetti avviati tra il 2000 e il 2021 in 165 Paesi a basso e medio reddito, i ricercatori americani di AidData hanno rilevato che l’80 per cento dei debitori della Cina è costituito da Paesi in difficoltà finanziarie. Circa il 55 per cento del debito in essere dovuto a Pechino da nazioni in via di sviluppo, includendo il capitale ma escludendo gli interessi, è giunto a maturazione, e tale percentuale potrebbe salire al 75 per cento entro il 2030. Anche questo non va bene.

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