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Era il 2021 quando Ron Dermer, già ambasciatore dello Stato ebraico a Washington e ora ministro degli Affari Strategici nonché componente osservatore del Gabinetto di Guerra istituito a seguito dei fatti del 7 ottobre, suggeriva di dare la priorità al dialogo con gli evangelici rispetto a quello con gli ebrei americani. Solo i primi, infatti, oltre a costituire forse più del 25% della popolazione americana contro il 2% rappresentato dai secondi (dati citati dallo stesso Dermer), manifestano sostegno appassionato e incondizionato alla causa di Israele; viceversa, solo per alcuni tra gli ebrei, peraltro per circa un terzo riformati, le esigenze strategiche di Gerusalemme compaiono in cima alla lista delle priorità.

In effetti, la relazione tra la comunità ebraica americana nel suo complesso e Israele difficilmente può essere definita in termini lineari. Nonostante l’intesa tra le due capitali rimanga solida seppur nella dialettica contingente, gli Stati Uniti sono una superpotenza che tende per sua natura ad assimilare gli elementi di alterità in modo tale che obbediscano ai propri piuttosto che agli altrui imperativi strategici. Memorabile, in questo contesto, è lo scambio di battute tra Golda Meir e Henry Kissinger riportato nel film di prossima uscita ‘Golda’: “Io sono innanzitutto un americano, in secondo luogo un Segretario di Stato, in terzo luogo un ebreo” afferma lo stratega di Washington; “Dimentica – risponde la Premier – che in Israele leggiamo da destra a sinistra”.

Più di recente, Bill Ackman, finanziere di New York di origine ebraica e strenuo difensore della causa israeliana postosi alla guida della rivolta contro le istanze ultra progressiste entrate in rotta di collisione con le comunità ebraiche presenti negli atenei d’Oltreoceano, non ha trovato una sponda amica in Henry Kravis, anch’egli tra i più noti esponenti, col fondo KKR da lui creato, della finanza di Wall Street e proprietario di quel Business Insider che ha apertamente accusato di plagio Neri Oxman, moglie di Ackman con un passato da ufficiale dell’Aeronautica israeliana e già nota docente al MIT.

Un recentissimo studio del Pew Research Center, però, sembra contraddire i presupposti dell’analisi di Dermer. Con la consueta profondità di analisi, infatti, il noto istituto di ricerca demoscopica evidenzia come l’89% della popolazione ebraica americana affermi la validità delle ragioni di Gerusalemme nel recente conflitto (il 7% la nega e il 4% non ha un’opinione), contro un 74%-5%-19% tra i bianchi evangelici e un 69%-7%-23% tra i bianchi protestanti non evangelici. L’azione di Tsahal ha quindi determinato un effetto di “rally around the flag”, di stringersi attorno alla bandiera che dura anche a distanza di quasi sei mesi dallo spaventoso attacco perpetrato da Hamas.

A sorprendere, semmai, è il dato riguardante i musulmani d’America, i quali, interrogati sulle ragioni di Israele, rispondono solo per il 54% definendole “non valide”, con un 18% che le ritiene addirittura “valide”, così come lo stesso giudizio di validità delle ragioni di Hamas è espresso dal 49%. È una comunità islamica che appare quindi più divisa e dubbiosa (più di un quarto non esprime una posizione certa su entrambi i quesiti) di quanto non si sia indotti a credere, anche se il fatto di vivere molto concentrata in determinate zone è fonte comunque di grande preoccupazione da parte del presidente Joe Biden in vista della scadenza elettorale di novembre, per via del sistema uninominale che premia proprio la concentrazione in particolare nei collegi solitamente in bilico.

Si può quindi ritenere che Israele possa trovare elementi di conforto nei dati del Pew? È indubbio che le tradizionali fonti di sostegno alla propria causa non manifestano particolari segni di cedimento neppure a fronte del crescente richiamo, da parte della comunità internazionale, alla proporzionalità della reazione militare e alla ricerca di una soluzione negoziata. Una vittoria di Donald Trump darebbe poi caratura presidenziale a tale sostegno, come si evince dal suo recente incoraggiamento a Israele a “portare a termine il lavoro”.

Ciò che dovrebbe preoccupare Gerusalemme, però, è il dato demografico, con la fascia dei giovani americani tra i 18 e i 29 quasi egualmente divisi tra chi sostiene Israele (38%), chi non lo sostiene (27%) e chi non ha un’opinione (34%). È pur vero che a mano a mano che si cresce nella classe di età i favorevoli a Israele aumentano (65% negli over 65) fino a portare a 58% il dato medio complessivo, così come va riconosciuto che invecchiando le proprie posizioni possono essere riviste. Non va dimenticato, però, che la classe 18-29 è quella che può essere chiamata alle armi. Anche per difendere, se necessario, lo Stato ebraico.

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