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Il 15 marzo 2011 è la data con cui viene concordemente definito l’inizio del conflitto siriano: tre anni sono passati, da quel giorno in cui le manifestazioni di piazza organizzate da mesi per chiedere riforme al presidente Bashar al-Assad (richiamato dagli studi di Londra per essere eletto nel 2000 alla successione del padre, in un sistema monopartitico, verticistico e repressivo, di cui il culto della personalità del leader ne aveva costituito il fulcro – “Allah, Siria, Hafiz” lo slogan insegnato ai bambini -, e dove la laicità del partito socialista arabo Bathaa era servita soltanto a permettere alla minoranza sciita alawita di occupare tra corruzioni e soprusi le posizioni di potere e di controllo), sfociarono in repressione armata.

Un conflitto controverso quello siriano, dove la guerra asimmetrica combattuta dai ribelli contro le forze governative, ha finito per far perdere i riferimenti, rendendo impossibile discernere i buoni dai cattivi, almeno in un modo assoluto.

Perché se da un lato Assad aveva iniziato schierando l’esercito contro i civili, aiutandosi con le milizie – gli shabiha – per portare avanti il lavoro sporco e non finire nel mirino delle organizzazioni per i diritti internazionali, e se da quello stesso lato erano state sganciate le armi chimiche e continuano ad essere usate le altrettanto tremende barrel bomb, dall’altro si è perso l’orientamento.

Il fronte ribelle, da molto tempo non è più costituito dai giovani scesi in strada per rivendicare i propri diritti fondamentali, una stampa libera, un sistema di partiti tra cui scegliere, una gestione del sistema statale e governativo più libera. E non c’è più soltanto l’Esercito Siriano Libero (Fsa) a combattere armato – reazione fisiologica di chi aveva disertato l’uso delle armi contro i civili indifesi di quel governo repressivo, di chi aveva pensato che la libertà si potesse ottenere, in quel momento, anche con il sangue.

No, quei ribelli sono eterogenei, disuniti, disarmonici, pericolosi: il tempo ha permesso infiltrazioni di vario genere, indurito le visioni e insegnato il pragmatismo per difendere le proprie istanze. Prendere da esempio i curdi, che su al nord combattono una guerra personale, contro tutto e tutti: si alleano per interesse con gli altri gruppi, per strappare altri metri di quel territorio che si sentono proprio, ancestrale, ma non si tirano indietro se quegli stessi ribelli, per quelle stesse terre, occorre combatterli.

Nel resto del Paese, poi, le forze jihadiste rappresentano ormai quasi i tre quarti dei combattenti anti-Assad, e corrispondono all’indebolimento dell’Fsa. Fronti separati, anche qui, comunque. La deriva settaria che il conflitto ha via via assunto (pensare al massacro degli alawiti ad Aqrab nel dicembre del 2012, dove gruppi estremisti salafiti uccisero 125 persone), ha subito un’altra subordinazione, con questi stessi gruppi in lotta tra loro – su tutti, al-Nusra e Isis.

La guerra in Siria, ormai, non ha più nessun genere di certezza: il presidente Assad serra i ranghi, continua a combattere (le offensive delle ultimi tempi, hanno prodotto qualcosa come 200 morti a settimana, numeri record, anche se non ufficialmente confermati dopo che l’Onu, per la confusione e l’asimmetria del fronte, ha deciso di smettere di contare i morti),. Di più, a quanto pare sembra che stia cercando di individuare la strade per una futura rielezione. Il paese è frammentato, la rivoluzione dei ragazzi del 2011, infuocati dalla Primavera Araba, è stata rubata dai jihadisti che hanno in progetto di creare un sistema che non sembra troppo migliore dall’attuale.

In tutto questo, l’unica certezza è il fallimento di un mondo ingovernabile, quello dell’Occidente in primo piano – ma anche quello arabo, quello dei paesi del Golfo che hanno aiutato e finanziato i ribelli sunniti, e quello Russia-linked, che ha sposato la causa dell’alleato storico Assad, cercando ipocrite strette con una mano, mentre con l’altra continuava a passare le armi sotto al tavolo dei colloqui di pace.

Anche dopo il superamento dei limiti sostenibili del conflitto – quelle red lines sbiadite segnate da Obama – con l’uso delle armi chimiche,  le nazioni occidentali hanno continuato a tralasciare di fatto la questione, limitandosi a favorire stanchi tavoli di confronti. E la concertazione raggiunta sullo smaltimento, che procede lento tra dubbi e mancanza di fiducia e che non ha di certo messo fine alle battaglie, ne è paradigma.

In Siria la strategia peggiore è stata l’attesa, la non ingerenza del pragmatismo, il non-intervento, fin dai primi tempi quando ancora la frammentazione non era irrimediabile. Pericoloso spettro che fa da scenografia a quello che sta succedendo in Ucraina. Dove lo stallo della situazione di questi giorni in Crimea, sembra surreale se si pensa al referendum dii domenica 16 marzo, quando la popolazione voterà presumibilmente a favore di un’annessione alla Russia e quando le nazioni dell’altra parte del mondo, si troveranno di nuovo di fronte al superamento sfrontato di altre linee rosse – rappresentate stavolta da quella possbile annessione, che G7 e UE hanno già definito illegittima.

La speranza è che quel cartello (nella foto) che la scorsa settimana è apparso fa tra le mani dei ragazzi di Kafranbel, con cui si incitavano gli ucraini a non mollare e a contare solo su loro stessi, senza sperare mai nella comunità internazionale, sia disatteso.

A che prezzo, ormai, è tutto da vedere.

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