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Forse avevamo frainteso. Peggio, forse eravamo stati indotti a credere che davvero Matteo Renzi intendesse cambiare verso all’Italia. Che la sua rottamazione frenetica implicasse lo smantellamento del più vecchio partito conservatore e corporativo nazionale ricorrendo a quello che fu lo slogan felicissimo della rivendicazione giovanile del ’68: la fantasia al potere. Qualche dubbio l’avevamo espresso. Non c’era piaciuta la defenestrazione a freddo di Enrico Letta, che gli poteva essere maestro nel districarsi in un’Europa che non è certo quella vagheggiata da Alcide De Gasperi e da Altiero Spinelli ed è prigioniera di euroburocrati che fanno felice soltanto l’Angela Merkel (proveniente dall’opposto versante della Germania comunista) e, teniamolo bene a mente, i socialdemocratici ben addentro negli affari della borsa di Francoforte.

Prima del traguardo agognato, Matteo Renzi assicurava discontinuità; rapidità d’azione; immediata riforma elettorale; progetti di riforma costituzionale seri, sortiti da una rilegittimazione democratica e di agibilità politica del principale antagonista; riforme del lavoro né assistenzialiste né affidate a vecchie corporazioni; una visione di politica economica di rottura con le gestioni Saccomanni ripetitive delle leggi-capestro merkelliane; una visione complessiva che marcasse l’inizio della Terza Repubblica. Poi, nel Palazzo dei Palazzi, l’incantesimo si è dissolto.

Entrato con una lista dei ministri bella, fresca, giovane e promettente sconquassi, Renzi se ne è uscito con una lista di ministri subito revisionata, telegenicamente funzionante, trasparentemente densa di fedeli raccattati anche nei campi di Agramante piddini o di corporazioni potenti ma privi di sicura idoneità ad esercitare le funzioni chiamati a rivestire. Il ringiovanimento medio – eccellente, anche nel rafforzamento dell’elemento femminile -, non fa rima con capacità ministeriale più alta di quella dei predecessori. Ai microfoni del Quirinale il nuovo presidente del consiglio è parso d’improvviso meno sbruffone, quasi più compunto, col tradizionale sorriso questa volta forzato, deformante, tipico di chi, dopo tanto armeggiare, messo alla stanga, d’un tratto comprendeva che di fantasia ne aveva avuta parecchia, ma di certezza di esercizio (e di durata) del potere ne aveva quanto il governo abbattuto.

C’è da sperare che Renzi si sia reso conto che la politica non è tramestio di intrighi, che spesso si promuovono ma sovente si subiscono brutalmente. L’ultima giornata di trattative con i suoi nove cespugli alleati temporaneamente, ha segnato il punto più basso dello scambio di vedute poco ideale, molto pragmatica sulle poltrone. I centristi non hanno offerto complessivamente un bello spettacolo. Il governo Leopolda nasce col marchio di Massimiliano Cencelli (cioè della peggiore Prima Repubblica). A un anno esatto dal primo giorno della XVII legislatura, ci si accorge che l’Italia è almeno tripolare. Che l’insidia maggiore si cela dietro lo streaming del terzo polo che, in nome dell’antipolitica, aspira al primo posto della graduatoria della Terza Repubblica. Mentre l’ammucchiata rissosissima dei polini, ha smarrito ogni bussola politica; si sbriciola ulteriormente in piccole ambizioni immotivate, in sindacalismi per la distribuzione dei seggi ministeriali e affini; talvolta proponendosi addirittura come alternativi al renzismo e a un polivalente Pd di cui Renzi dovrà presto abbandonare la guida, essendogli già stato contestato il doppio incarico, dopo avere appena dovuto rinunciare al terzo di sindaco.

Era questo che volevano gli italiani? Se a questo punto si doveva scadere, tanto valeva tenersi il governo Letta, rimaneggiato per la seconda volta, dopo la ptima (tutt’altro che irrilevante) del ridimensionamento da esecutivo della pacificazione e delle grandi intese a ministero delle piccole intese che davano voce a modeste formazioni ambiziose ma incattivite dalla progressiva insignificanza. Solo Pier Ferdinando Casini, il più bistrattato, ha dato segno di orgoglio e di realismo, prendendo atto che il bipolarismo è finito, c’è ora un tripolarismo contornato da minuzie e che, per conservare e consolidare lo Stato democratico, occorre convincersi che o si rafforza il polo moderato oppure si rischia di sbattere contro un grillismo più incantatore del renzismo. Il quale ora si presenta sempre più condizionato dai forti poteri corporativi; da una burocrazia pubblica che si sente padrona di insegnare ai neoministri cosa firmare e cosa no: perché questo è il potere vero di un’Italia che persiste a parteggiare per chi la scudiscia perennemente.

Abbiamo dinanzi – e questo è un inedito assoluto -, l’ossimoro della «opposizione collaborativa» di Berlusconi, davvero segno di fantasia al potere ma con percezione del potere da gestire e non solo delle fresche facce delle leggiadre ministre suscitatrici di fantasie. Ma già la connessione tra legge elettorale e progetti di riforme costituzionali la si pretende vincolante: per allontanare al massimo una consultazione elettorale, non per migliorare la qualità della democrazia italiana. E ciò implica arretramento, non avanzamento progressista.

Renzi esporrà oggi i suoi propositi di governo. Occorrerà ascoltare bene, per esprimere un giudizio più compiuto sulle modalità studiate per mutare verso all’Italia. Ma, l’esposizione alle camere è una cosa, l’attuazione degli obiettivi un’altra. E il giudizio dovrà essere soprattutto ricavato da ciò che, nei primi 60 giorni (secondo l’obiettivo dichiarato dal presidente del consiglio) di attività si sarà realizzato. Qui si parrà la nobilitade di Renzi e dei suoi spericolati adoratori (o detrattori). Nessun pregiudizio, dunque, e persino benevola attesa. Assieme però alla grande preoccupazione che, dietro una maschera festosa, possa celarsi l’ormai inaccettabile vuoto politico che ottunde gli italiani da lunga pezza.

La maschera e il volto di Renzi

Forse avevamo frainteso. Peggio, forse eravamo stati indotti a credere che davvero Matteo Renzi intendesse cambiare verso all’Italia. Che la sua rottamazione frenetica implicasse lo smantellamento del più vecchio partito conservatore e corporativo nazionale ricorrendo a quello che fu lo slogan felicissimo della rivendicazione giovanile del ’68: la fantasia al potere. Qualche dubbio l’avevamo espresso. Non c’era piaciuta la defenestrazione…

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