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Nei primi anni ’60 del Novecento il cinema era una festa continua. Eravamo insaziabili e la giornata non si concludeva certo con la cena a casa o nelle ultime osterie anni Trenta (stile C’eravamo tanto amati), quelle con le tovaglie di carta, oppure di cotone quadrettate, e il vino dei Castelli abbondantemente annacquato.

Si scorrevano le pagine del quotidiano Paese Sera (che usciva appunto il pomeriggio) per vedere che film “ci sono stasera”, con le relative stelle e la firma di un attento e ironico critico cinematografico triestino, Callisto Cosulich.

“Che danno al Rex?”. Ogni romano conosceva il grande cinema di corso Trieste, con tanto di ampia galleria, quasi quanto l’atrio di una stazione ferroviaria di medie dimensioni (tipo Ostiense).

Ognuno di noi aveva i suoi gusti in termini di sale cinematografiche, poiché ciascuno si affezionava al “suo” cinema, alla “sua fila”, alla “sua” posizione rispetto allo schermo: ma erano gusti diplomaticamente conciliabili, come quelli per il genere. Ossia si cedeva, a turno, al genere in teoria poco amato per far piacere al nostro compagno di poltrona, magari poi con qualche sorpresa.

E, a parte gli amati film di spie (a partire dal primo James Bond: Licenza di uccidere, 1962: tutte le donne sognavano d’incontrare alla Rinascente un certo Sean Connery), anche i western andavano bene (i lunghi primi piani e le incredibili colonne sonore di Ennio Morricone per il filosofico western di Sergio Leone: Per un pugno di dollari, 1965).

Teneva il neorealismo italiano nelle tarde propaggini di un Mamma Roma (Pier Paolo Pasolini, 1962), o di una Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1965). Poi il cinema esistenzialista felliniano, dalla Dolce vita (1960) a Otto e mezzo (1963) sino all’onirico Giulietta degli spiriti (1965, con gli indimenticabili pini di Fregene).

E potevi bucare la nouvelle vague di cui si parlava su riviste e quotidiani ogni mese? Da I quattrocento colpi (François. Truffaut, a Roma nel 1960) a Il disprezzo (Jean Luc Godard, 1963) dal romanzo di Alberto Moravia, alla Cinese (1967).

Per la maggior parte del pubblico, noi inclusi, il fascino del cinema hollywoodiano, da tempo, almeno da Casablanca (1944), a Roma nel 1946, ci aveva “incatenato alla poltrona”, avrebbe detto Vladimir Majakovskij (se non avesse fatto quel gesto trenta anni prima).

Ecco gli imperdibili Hitchcock dei Sessanta (continuazione di capolavori degli anni Cinquanta), con Il sipario strappato (1966), portava per la prima volta la spy film oltre cortina.

Ma notevoli anche i primi film che criticavano la finta democrazia americana grazie a Il buio oltre la siepe (1962, Robert Mulligan), film che anticipava la rivolta dei college e delle università del 1966-67.

E, ancora, da veri malati di cinema, i russi (L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovsky), ma anche il recuperare, nei d’essai, gli “esotici” giapponesi: Rashomon (1950, Akira Kurosawa), I sette samurai (1954) e Viaggio a Tokio (Yasujirô Ozu, 1950).

E se volevi vedere la crisi esistenziale di un pastore protestante, novità per un paese cattolico, ecco la conferma di un regista affermato, con Luci d’inverno (1963, Ingmar Bergman).

Scoprivamo il fascino di Praga e Budapest con le nouvelles vagues d’oltre cortina, grazie al coraggio del distributore greco-italiano Moris Ergas: da L’asso di picche e Gli amori di una bionda di Miloš Forman, ai cervellotici e bei film di Miklós Jancsó: proiettati al Rialto di via Nazionale.

Per seguire un promettente ciclo jugoslavo (fulcro della rassegna il primo film che parlava al mondo della vita degli zigani: Ho visto zingari felici, di Aleksandar Petrović, fresco da Cannes 1967 con un bel premio, un film su cui poi anni dopo ci avrebbe studiato Emir Kusturica), io e un mio caro amico chiedemmo di iscriverci all’U.D.I (Unione Donne Italiane, costola del P.C.I.) che questionò a lungo sull’opportunità di accettare l’iscrizione… così alla fine del ciclo restituimmo la tessera. Non amavamo le ortodossie!

Tutti film dei mitici anni Sessanta di cui conservo programmi, schede, ritagli di giornali, locandine. Ci infilavamo anche nelle scomode e anguste salette di proiezione dei partiti e delle parrocchie, non appena il passaparola alludeva a qualche “imperdibile”, mentre nei cinema d’essai, non altrettanto comodi, eravamo di casa, anche quando “davano” gli incomprensibili (uno per tutti: L’uomo che mente, 1968, di Alain Robbe-Grillet).

L’attesa dell’ultimo spettacolo in tutto il suo fascino, la scelta del film, il buio in sala, creavano quella giusta atmosfera di tensione prima di un evento, come il rullo di tamburi al Circo o il sipario che si alza lentamente a Teatro.

La stessa atmosfera che avrebbero poi vissuto i personaggi di Amarcord (1973) di Federico Fellini nell’attesa del passaggio notturno del transatlantico Rex, pieno di luci che si confondono con le stelle: solenne, naviga lento, lontano e meravigliosamente finto, come cielo e mare.

La frenesia cinefila cominciava, più o meno alle 21 di ogni sera, durante l’ultimo «sgoccetto», avrebbe detto l’amato Belli, prima di accartocciare la tovaja di carta con i nostri schizzi a matita come il conto.

“Hai visto il giornale?” cioè la “pagina dei cinema”, con tanto di film segnalati, tre righe di trama e i nomi del regista e degli attori…

Più che sufficiente per una scelta mirata.

“Sì”.

“E allora?”

“Non c’è gnènte, neanche al Rex”.

Rimanevamo tutti in silenzio – tutti e tre, occasionalmente anche quattro – fino a quando uno di noi non calava la puntuale sintesi esistenziale: “E vi sembra un buon motivo per non andare al cinema stasera?!”.

Non immaginavamo, noi pochi, di dover, poi, così tanto a quello sconsolato gnènte, vissuto insieme. Prima che arrivasse l’inesorabile tutto.

Quel tutto pieno di futuro e di attese, che avrebbe, inevitabilmente, portato via quegli anni, quelle atmosfere, quei riti, quei cinema e cinemini, alcove di sogni impregnate di fumo impastato con l’odore di velluto o legno.

Tutto via.

Restano però quei capolavori, agganciati alle nostre vivide locandine della memoria.

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